Quarto girone de L’Inferno di Dante. Due schiere di dannati spingono faticosamente enormi macigni e procedono in senso opposto. Urtandosi violentemente, alzano grida gli uni contro gli altri. Sono le innumerevoli anime degli avari e dei prodighi. Agli avari i prodighi chiedono «Perché tieni stretto il masso?». Ai prodighi gli avari domandano «Perché lo fai rotolare?». Quindi, senza risposta alcuna e uniti dal medesimo eterno destino, si voltano indietro e riprendono la loro inutile fatica. Dante, sopraffatto dall’angoscia, chiede a Virgilio chi siano quei dannati: sono tutti coloro che in vita non spesero il denaro con giusta misura, peccando gli uni di avarizia e gli altri di prodigalità. Tra le anime con la tonsura, che furono chierici in vita e tutti peccatori di avarizia, il sommo poeta si meraviglia di non riconoscerne alcuno. E, pronta, la sua guida gli rivela il perché: il carattere immondo del loro peccato li ha resi del tutto irriconoscibili. I beni terreni affidati alla Fortuna – conclude Virgilio – sono effimeri e non basterebbe tutto l’oro del mondo per placare queste anime in pena.
Oggi, come al tempo di Dante e come secoli prima ma ancor più di allora, farsi domande sul denaro è irrinunciabile. Cosa rappresentano i soldi per noi? Come funzionano? Cosa ci fa scegliere se spenderli o risparmiarli? O di essere avidi, seguendo un’insaziabile bisogno d’accumulo? o avari, in un’infaticabile desiderio di trattenere e non donare? E come funzioniamo, quindi, noi rispetto alle scelte cui i soldi e l’economia ci mettono di fronte? Non possiamo non farci domande sui soldi perché queste, anche quando scomode o spiacevoli, sono domande sulla vita e sul senso che noi le attribuiamo. Come usiamo il denaro racconta una parte delle ragioni irragionevoli dei nostri comportamenti, i valori che riteniamo nostri e che condividiamo con le comunità in cui viviamo, come l’idea che nutriamo sulla vita in generale.
I soldi popolano i nostri pensieri e i nostri sogni. Il valore attribuito al denaro contribuisce alle prese di decisione nel lavoro, nelle relazioni, nel tempo libero, nelle emozioni, nelle passioni. Attraverso i comportamenti e le opinioni che abbiamo sul denaro esprimiamo giudizi sul mondo che ci circonda, valutiamo gli altri e noi stessi. E lo facciamo in forza di tale metro di misura, al punto di ricondurre tutto ad esso. Il denaro è un’idea. È un pensiero prodotto dall’invenzione umana. «Né sulla Terra né in cielo troviamo un’altra istituzione umana o realtà naturale che si avvicini al modo d’essere e di agire del denaro», scrisse Vittorio Mathieu in Filosofia del denaro: dopo il tramonto di Keynes (Armando, 1985). Questo può forse suonare sacrilego a coloro che sono abituati a maneggiare il prodotto di sudati stipendi davanti alle casse dei negozi più svariati.
Eppure, proprio nell’era della tecnofinanza e delle monete elettroniche e digitali, è più che evidente che il denaro agisca senza possedere una propria fisicità specifica e non avendo con la materia (più) nulla a che fare. Oggi accumuliamo moneta così come nei drammi di Samuel Beckett tutti noi attendiamo il Grande Nulla-Denaro, capace di piegarsi ai desideri di quanti lo maneggiano, ignari di essere al contempo manipolati dalla grande attesa di un Godot-Moneta. Il denaro, direbbe il Prospero de La Tempesta di William Shakespeare è fatto della materia di cui sono fatti i sogni. E il futuro che ci mostra il denaro, come quello che ci mostra il sogno, non è quello che accadrà ma quello che vorremmo accadesse, parafrasando Freud. È in forza delle sue quattro funzioni fondamentali che il denaro ha questo ruolo:
- misura del valore, funzione che ci permette di accordarci su cose qualitativamente diverse, quantificandone l’equivalenza;
- mezzo di scambio, funzione essenziale per ottenere la quantità desiderata di una merce con una quantità di un’altra merce dello stesso valore disponibile;
- mezzo di pagamento, per cui a una ricchezza liquida che paga viene corrisposta una ricchezza meno liquida che viene pagata. Funzione che attribuisce al denaro, di fatto, una posizione liberatoria, potendo essere dato in pagamento di qualsiasi obbligazione;
- deposito di ricchezza, ma di una ricchezza ideale.
LA RICCHEZZA DIPENDE SOLO DA EVENTI CHE SI REALIZZANO IN FUTURO
Se si volesse realmente conservare la propria ricchezza sarebbe più opportuno che ognuno piantasse dei paletti a confine della propria terra e ponesse al fresco carne e pesce. In fondo, la ricchezza economica, rappresentata dal denaro, altro non è che il potere che un individuo ha di far lavorare gli altri su uno specifico fondamento, ovvero quello della convenienza nel disequilibrio dei beni esistenti. Vale infatti a tale proposito il paradosso di Pantaleoni secondo cui «là dove tutti dispongono di quantità illimitate di tutti i beni che desiderano regna il massimo benessere, ma non esiste ricchezza». Non sussistono relazioni necessarie tra gli uomini in rapporto ai beni. Il paradosso si risolve quando all’idea di ricchezza come rapporto tra consumatore e beni di consumo sostituiamo il concetto di ricchezza come rapporto di potere tra individui, di capacità di influenzamento, di garanzia di un’atavica fiducia tutta da conquistare e da tesaurizzare.
Ognuno può riconoscere questa convenienza nel bisogno che ciascun individuo o gruppo sociale ha dei beni scarsi che, in quanto tali, vengono idealizzati, cioè convertiti in un denaro che diviene deposito di ricchezza, motore che fa muovere gli altri al lavoro, potere che permette la realizzazione dei propri bisogni e desideri. Ma qual è e dove sta dunque il valore del denaro?
DENARO E LINGUAGGIO SONO DUE MEZZI PER AVERE UNA RELAZIONE
Per questo è intimamente legato al linguaggio: esiste in quanto rinvio a un contenuto la cui particolare realizzazione sta esclusivamente nel rapporto reciproco tra oggetti di scambio dotati di valore, non solo economico. Ecco la sua natura: il denaro non esiste se non nell’atto di essere ceduto, quando viene allontanato da sé per essere dato ad altri. Come si spende una parola nel linguaggio, che esiste in quanto pronunciato e condiviso, così si spende moneta perché il denaro esiste nel momento in cui viene fatto circolare, distribuito e verificato nel suo “peso”, come si “pesano” le parole. La parola veicola un’azione. Il denaro paga un agire.
Se il denaro è deposito di ricchezza, questa deriva dal rinvio temporale futuro a cui il denaro, come segno, rimanda. Per questo motivo, nel dar significato al denaro riesce difficile – oggi più d’un tempo – considerarlo strumento di un’economia estranea al contesto sociale e alle modalità d’interazione tra gli individui. Il denaro, rispetto ad altre forme di accumulazione della ricchezza, rende (teoricamente) la crescita sociale alla portata di tutti e, sempre teoricamente, può aiutare la redistribuzione della ricchezza in modo equo. D’altra parte, se allarghiamo lo sguardo alla finanza globale ci rendiamo conto di un potere enorme che non solo sta concentrando ricchezze (misurate solo in moneta) nelle mani di una nuova aristocrazia, come racconta bene Matthew Stuart in The 9.9 Percent Is the New American Aristocracy, ma addirittura influenza le scelte sociali e politiche in misura maggiore delle religioni e della morale.
Tuttavia, il denaro può essere la misura della ricchezza accumulata ma non è certo l’unica ricchezza. Reti sociali, amici, famiglia, salute, istruzione, cultura, ambiente sono manifestazioni economiche della ricchezza che definisce chi siamo. Il cosiddetto capitale umano. Cosa rappresenta quindi l’accumulo di ricchezza? Ancora oggi ci inganniamo nella ricerca di una risposta e vogliamo che fruscianti bigliettoni o stringhe di bit rappresentino oro. Vogliamo che la nostra carta di credito splenda come la polvere delle pepite, inconsapevoli che proprio l’oro è diventato valore in quanto al suo essere denaro, così come cammelli, cauri, cristalli di sale e chicchi di riso.
Oggi che la materia in cui si incarnò il denaro (oro, pecore, conchiglie e simili) ha perso la sua sostanziale utilità è possibile osservare meglio come la monetizzazione e l’impiego non monetario dello stesso oggetto possano coesistere solo ed esclusivamente in virtù del fatto di escludersi a vicenda. Solo in questo modo si monetizza un oggetto: liberandolo dalla sua utilità intrinseca. E qui sta l’essenza del denaro.
IL DENARO SI USA ESATTAMENTE AL CONTRARIO DELLE COSE UTILI, PRIVANDOSENE
Privarsi di denaro significa attribuirgli il senso che gli è proprio. Se fedeli alla legge di Gresham secondo cui «la moneta cattiva caccia la buona» si tendesse a tenere presso di sé una moneta perché “buona”, in forza del suo proprio valore significativo in sé, allora la stessa non servirebbe più da moneta. Ci sono però anche comportamenti che portano a un accumulo continuo di beni e oggetti e di denaro, in un parallelismo che può trovare le sue valenze nel bisogno di controllo, nella fuga dal disagio della separazione, nel desiderio di “possedere” il futuro e l’incognita che esso porta necessariamente con sé.
Se da un lato l’accumulo può essere letto come un comportamento evolutivo, funzionale alla sopravvivenza e alla previdenza, d’altro lato la tendenza alla tesaurizzazione espone l’individuo (così come espone il corpo, nel senso clinico del termine) al rischio di tossicità – fisiologica, psichica e sociale – come nei casi di disposofobia, un disturbo che si spiega con malesseri e fobie che trovano nell’accumulo un tentativo di ricollocamento funzionale: riempimento di un vuoto emotivo o relazionale, perdita di controllo del rapporto costi-benefici, trasformazione di azioni eticamente connotate come positive in decisioni autolesive o dannose per gli altri, attaccamenti affettivi, tormenti dovuti alla paura della scarsità, difficoltà nel prendere decisioni emotivamente coinvolgenti. E difficoltà nel decidere ora cosa in futuro potrà o meno servire, o diventare importante, o ancora acquisire valore secondo R.O. Frost e G. Steketee, autori di Stuff: Compulsive hoarding and the meaning of things (Houghton Mifflin Harcourt, 2010).
ACCUMULARE DENARO SIGNIFICA FERMARE IL TEMPO
Chi accantona monete, oggetti e beni intende cristallizzare il passato, non esporlo al rischio dell’incertezza futura, salvaguardare il successo passato solo perché “è successo”, senza esporsi al cambiamento. Dal punto di vista comportamentale, il denaro rappresenta un rinforzo efficace nel breve periodo e può portare a sviluppare idee finalizzate ad accumulare sempre più denaro, in un crescente bisogno di ulteriori rinforzi positivi causato dalla sensazione che quanto posseduto non basti mai. L’avido, infatti, è raramente felice, a causa della sua insaziabilità che lo rende insoddisfatto.
All’aspettativa di essere più felice con più denaro subentra, a ogni accantonamento, un adattamento dei suoi bisogni e delle sue aspettative. E il desiderio di ulteriore denaro. L’obiettivo di ricchezza, per i Re Mida e gli Arpagone, si sposta continuamente. Eppure il conto in banca non è l’unica ricchezza. Nella società di oggi la ricchezza è intimamente legata all’idea di successo, alla percezione del valore posseduto in quanto persone, riducendoci a soggetti in continua ricerca di approvazione, di affermazione relazionale e di ammirazione, in un constante e immortale tempo presente. Da ciò, da una società impegnata solo nel vivere il presente, deriva una scarsa fiducia nel futuro.
Da un lato c’è la dimensione “esterna” del denaro. Qui, nella quotidianità dei consumatori, attraverso i soldi le persone distinguono, con precisione più o meno consapevole, forme e funzioni delle relazioni interpersonali e ne definiscono i legami in forza del potere agito attraverso il denaro stesso. E dall’altro c’è la dimensione “interna” del denaro, ovvero il livello psichico in cui è generata l’idea stessa del denaro e da cui nasce l’influenza su processi decisionali, desideri, valori, emozioni e aspettative. Viviamo in un timore diffuso dell’Altro, da quando l’impoverimento culturale e le sempre più scarse risorse dedicate all’istruzione, alla formazione e alla cultura hanno mostrato il conto e iniziato a far pagare il costo di un’aumentata conflittualità sociale e di una regressione all’individualismo e all’egoismo, in un contesto sempre più frammentato.
In tale contesto le pratiche dell’accantonamento appaiono come un tentativo di rassicurazione che può essere risolto attraverso un allenamento a prendere distanza da un oggetto, a trovare comportamenti alternativi all’acquisto consumistico di beni, a facilitare un cambiamento in tal senso delle proprie convinzioni personali e a recuperare il senso della previdenza, sì, ma non quello dell’avidità. Per non passare la propria vita a spingere, insoddisfatti, il macigno dei nostri desideri.
L’analisi di Massimo Bustreo, pubblicata su Mente & Finanza. Bustreo è Phd umanista, consulente in psicologia del lavoro e dei consumi, coach professionista, docente di Tecniche di comunicazione efficace e di Public Speaking all’Università IULM di Milano e di Psicosociologia dei consumi culturali all’Accademia di Belle Arti di Verona. Autore, tra altri, di Denaro e Psiche (Angeli, 2007) e La terza faccia della moneta (Angeli, 2018).
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