Qualcosa di buono uscirà anche da questa crisi. Un nuovo dopoguerra, che come tutti i dopoguerra sarà ricco di energie e allungherà lo sguardo più lontano, sopra le macerie della nostra quotidianità abbattuta.
In attesa di un possibile risorgimento della società e degli individui, nel quale speriamo tutti, guardiamo a quali settori dell’economia sapranno fare virtù della necessità imposta dalla situazione.
La tecnologia: i compleanni su zoom, la chiacchierata serale con i nonni cui non possiamo più far visita, il video condiviso sulla chat di famiglia che ci permette di partecipare alla crescita di una nipotina atterrata in questo strano mondo alla vigilia di un’altra peste; se c’è qualcosa che abbiamo imparato da questo lungo tempo di apnea, è che senza la tecnologia saremmo più soli. Ma anche più poveri e probabilmente privati del tutto della nostra identità sociale; senza smart working, senza la possibilità di continuare a coordinarci con il lavoro dei colleghi e a darci daffare per la nostra carriera a mezzo busto, con la camicia stirata sopra i pantaloni del pigiama.
Tutti sappiamo che se quello che è successo con il Covid-19 fosse successo 50 anni fa, sarebbe stato tutto molto più difficile da sopportare.
Inevitabilmente, questa crisi sta portando grandi investimenti nella tecnologia, con ambizioni che vanno dalla telemedicina, che permetterà di curare positivi domestici di un’altra eventuale pandemia ma prima ancora qualunque malato in zone rurali o remote, all’intelligenza artificiale, che ci permetterà di affrontare problemi di screening, gestione dei dati e tracciamento senza dover dare forfait dopo pochi mesi di emergenza.
Già da tempo la tecnologia è settore privilegiato dell’economia di tutto il mondo ma il Covid-19 ha spinto nell’ultimo miglio a una velocità inaspettata e l’ascesa impressionante durante i mesi di lock-down dell’indice Nasdaq ne è la conferma. Salvo, alla notizia del primo vaccino disponibile, invertire la marcia. Ma pur essendo inevitabili alcuni aggiustamenti a settori pompati dalla contingenza, come i titoli tecnologici e probabilmente l’oro, resta il fatto che questa emergenza ha accelerato una tendenza già presente verso un uso più pratico e diffuso delle nuove tecnologie, passaggio obbligato per aprire la strada a una divisione dei compiti di lavoro tra intelligenza artificiale e umani.
Acquisti online: negli ultimi mesi anche chi non aveva mai fatto uso del computer per i propri acquisti ha imparato a farlo. Poiché l’ostacolo non era tanto riuscire a farlo quanto pensare di farlo, possiamo dare per scontato che, quando tutto questo sarà passato, molte persone continueranno a fare acquisti online, demandando al retail tradizionale un’esperienza che l’online non può dare: sfogliare i libri di una libreria, provare un vestito che ci chiama a sé da una vetrina, testare un profumo sul polso, mangiare un gelato per strada, gustare una pizza appena sfornata.
Sull’esperienza dal vivo dovrà far leva il negozio per continuare ad esistere ma ecco che arriva in soccorso l’idea delle città di prossimità o “15 minutes cities”. La necessità di rimanere confinati nelle proprie case, senza spostarsi più nemmeno per andare al lavoro, ha fatto risorgere l’idea e il valore del quartiere, di un circondario di pochi chilometri intorno a casa dove si possa trovare tutto quello che serve entro i 15 minuti, più o meno, ricostruendo quella comunità che esisteva nei rioni di un’altra vita: un nucleo di attività, intrattenimento e residenze protetto rispetto alla grande città che pulsa intorno. Così gli esperti prevedono che i negozi vecchio stile rifioriranno.
Rivalutazione delle aree suburbane: allo stesso modo, dopo che in tanti hanno scoperto i di poter lavorare da casa senza sobbarcarsi il commuting esasperante per ore di viaggio e ritardi, si assisterà a una rivalutazione delle aree suburbane, dove i costi delle case sono inferiori e gli spazi più ampi rispetto al centro città. Gli architetti che si sono battuti finora con le amministrazioni pubbliche per ripensare la vita fuori dal centro avranno diritto di parola e, finalmente, di maggior credito. Le periferie si ripuliranno, quel che non si spende per spostarsi si investirà in una migliore gestione della famiglia, mentre gli affitti delle grandi città dovranno adattarsi a una ragionevolezza che avevano perso da tempo.
Nuova residenzialità per anziani: le residenze per anziani classiche hanno dato forfait. Anche se cercano di resistere, hanno mostrato l’osso. Non sarà accettabile una seconda volta la moria di anziani abbandonati a se stessi. Bisognerà ripensarle nell’ottica di piccoli nuclei dotati di nuove tecnologie: sensori in remoto, strumenti digitali che consentano agli ospiti di restare in contatto con le famiglie e alle amministrazioni di mantenere le stesse al corrente dell’evoluzione dei propri cari. Ma anche infermieri e assistenza meglio pagati.
Di fondo si dovrà evitare agli anziani di finire in una RSA solo perché non sono più in grado di vivere da soli, incentivando una serie di modifiche leggere nelle case private per renderle più vivibili a una età che così tarda non l’avevamo mai pensata prima e creando soluzioni intermedie, che già esistono negli USA, di piccole comunità di 10/12 persone che condividono servizi e cura pur avendo la privacy del proprio appartamento o camera privata, con autonomia di decisione su cosa e quando mangiare, con chi condividere tempo e spazi. Gli esperimenti già fatti negli States dicono che in questo tipo di comunità non ci sono stati malati di Covid e i residenti non hanno sofferto la solitudine e l’isolamento delle nostre case per anziani.
Sostenibilità: quanto ci è capitato fa riflettere sulle storture che il nostro “progresso” ha imposto alla natura e al mondo circostante. Forse questa consapevolezza ci porterà ad essere più attenti a quello che facciamo, consapevoli che le emergenze che abbiamo sempre pensato riguardare realtà lontane, possono capitare anche qui.
Forse i cinesi smetteranno di mangiare animali selvatici venduti vivi e tutti noi mangeremo meno carne. Forse si smetterà di pensare agli anziani come a un peso, quando sarà possibile fare due calcoli e quantificare il sostegno economico che hanno dato a figli e nipoti perché potessimo guadare le acque agitate di questa pandemia. Forse questa crisi ci farà rendere conto che non siamo alla guida di una vecchia utilitaria, ma di una macchina molto più complessa e delicata e stupefacente – come successe agli astronauti che per la prima volta vedevano la Terra dallo spazio illuminata e sono rimasti segnati dalla sua bellezza e dalla sua fragilità in mezzo al buio. Forse davvero ci decideremo a investire quel che avanzerà da questa crisi economica in prodotti e soluzioni sostenibili, perché almeno i nostri nipoti – che saranno cresciuti con meno diritti all’istruzione, meno libertà e una eredità molto discutibile – non debbano criticarci più di quanto già non facciano.
Formazione: questa emergenza ci ha mostrato quanto sia necessario investire su una classe dirigente migliore, a cominciare dai territorî; più tempestiva, più preparata, più resiliente. Non vale solo per la pubblica amministrazione. Adesso che le aziende hanno finalmente scoperto che ci si può fidare dei propri dipendenti anche quando non sono sotto la vigilanza stretta dei superiori, possono dedicare energie alla formazione dei quadri e dei dirigenti che dovranno traghettare le loro attività dal mondo di prima al mondo di poi.
Vale anche per una riqualificazione dei lavoratori anziani. Di fronte al cigno nero, il know-how dei lavoratori senior può essere dirimente, può portare la barca nella direzione giusta, pur avvalendosi di tutti i talenti e le skills dei giovani. Forse è la volta buona che le imprese comprenderanno che avere diverse generazioni alle proprie dipendenze è un plus e combinarle valorizzandole un driver di competitività. La formazione porterà i lavoratori più senior a mantenersi attrattivi per le aziende e loro stessi saranno fonte di formazione per le leve più giovani.
Lavoro femminile: l’emergenza economica richiederà di coinvolgere il sesso femminile nel lavoro. Abbiamo bisogno di aumentare la produttività del paese che, appesantito da un gran numero di anziani per nulla valorizzati, perde terreno. Mantenere gli anziani al lavoro più a lungo – modulando diversamente mansioni e orari, sfruttando l’opportunità del lavoro in remoto, aggiornandone via via le competenze – e agevolare il lavoro delle donne può costituire un vantaggio competitivo dell’Italia. A prescindere dai risultati che la leadership femminile nel mondo ha dato durante la pandemia, l’altra metà del cielo è quantitativamente e qualitativamente da considerarsi una risorsa. Tanto più che i dati confermano che se le donne possono contare su occupazione e autonomia economica, tendono a fare più figli. E sappiamo che questo è un punto dolente del nostro paese. Così come solo se affetti da grave miopia si può non cogliere nella nuova vecchiaia attiva una chiave di risoluzione del suo peso previdenziale. Investire in anziani più sani e più autonomi significa anche liberare le donne da un peso che impedisce il loro sviluppo professionale.
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