Il Congresso del popolo cinese ha varato il nuovo piano quinquennale. I punti chiave comprendono tra l’altro il rafforzamento dell’indipendenza economica cinese (minore dipendenza dalle esportazioni e dai prodotti di fornitori stranieri nel settore delle alte tecnologie), la creazione di posti di lavoro e una “ristrutturazione verde” a lungo termine dell’economia.
L’obiettivo per il 2021 è una crescita reale pari al 6,1% circa e una riduzione del deficit di bilancio (3,3% invece del recente 3,6%). Alcuni commentatori rilevano una contraddizione tra le parole (l’intenzione dichiarata della Cina della ristrutturazione verde e neutralità carbonica dal 2060) e i fatti (la continua espansione delle centrali a carbone), ma questo è più probabilmente il risultato di una visione poco obiettiva e/o superficiale. Nel dibattito sulla sostenibilità e la protezione del clima si trascura ancora, soprattutto all’Occidente, che questo non può essere raggiunto senza i combustibili fossili e l’estrazione “sporca” di enormi quantità di metalli industriali.
Senza l’utilizzo di carbone da coke, petrolio, acciaio, rame, nichel, argento, e così via, le giranti eoliche, le centrali solari, le batterie e altre tecnologie di energia rinnovabile difficilmente possono essere installate nei tempi previsti e a un costo fattibile. Questa trasformazione della produzione di energia e lo sviluppo delle tecnologie verdi in molti paesi del mondo offrirà con ogni probabilità un forte sostegno a lungo termine a molte materie prime, specialmente ai metalli industriali, e quindi anche ai relativi paesi esportatori. In questo contesto, la Cina vede molto probabilmente l’opportunità per affermarsi come leader tecnologico globale.
La questione di Hong Kong è più complessa di quanto discusso in Occidente
La Cina ha attirato su di sé molte critiche soprattutto in Europa e negli USA per l’approvazione da parte del Congresso del popolo di una nuova legge elettorale per Hong Kong che permette a Pechino di bloccare i candidati indesiderati e con la quale ci si vuole assicurare che solo i cosiddetti “patrioti” cinesi governeranno Hong Kong. Questo può in effetti essere ritenuto poco democratico, ma da sempre Pechino non fa compromessi quando un’autonomia regionale concessa passa a tendenze separatiste. Con i loro appelli per un intervento da parte dell’occidente e la “liberazione di Hong Kong dal dominio cinese”, parti del movimento di protesta hanno superato le linee rosse della leadership cinese e allo stesso tempo le hanno fornito un gradito motivo per abolire il precedente sistema elettorale, stabilito a suo tempo dalla Gran Bretagna. Anche questo, del resto, era tutt’altro che democratico. Non seguiva affatto il principio “un elettore, un voto”, ma, per esempio, faceva sì che le imprese di Hong Kong avessero moltissima influenza sulla composizione del parlamento, tra cui anche le banche straniere con sede sul posto.
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