Italiani pazzi per i Pir, i piani individuali di risparmio.
Introdotti sul mercato dall’ultima legge di Stabilità, secondo le previsioni del Governo avrebbero dovuto raccogliere1,8 miliardi entro la fine del 2017, invece i dati di Assogestioni parlano di oltre 5 miliardi di euro investiti spalmati su 60 prodotti. E per i prossimi sei mesi ci si aspetta il raddoppio fino ad arrivare a quota 10 miliardi.
Un vero e proprio boom che ha spinto il Ministero dell’Economia a rivedere al rialzo le proprie previsioni andando a oltre i 65 miliardi entro il 2022. Numeri che hanno fatto scattare
l’allarme di un possibile pericolo ‘bolla’.
«Il bacino delle Piccole e medie imprese su cui i Pir investono (Mid e small cap), infatti, è limitato e c’è il rischio che i prezzi salgano più del dovuto non per i loro fondamentali, ma perché c’è troppa liquidità sul mercato», spiega Nicola Borri, economista dell’Università Luiss Guido Carli di Roma.
Indubbiamente in questi ultimi mesi la crescita dei listini più piccoli c’è stata, tanto che da inizio anno a fine luglio il Ftse Small Cap è salito del 27% e l’Aim Italia del 23%, mentre il Ftse Mib è rimasto ingessato a +12%.
Di fatto l’indice delle blue chip è stato doppiato da quelli delle small e mid cap. Ma, secondo alcuni operatori, al momento è prematuro parlare di una vera e propria bolla visto che le opzioni di investimento restano interessanti e c’è ancora spazio per una crescita controllata del settore.
Un investimento di medio periodo
Del resto i Piani individuali di risparmio rappresentano uno strumento di investimento attraente per i piccoli e medi investitori made in Italy e una fonte di sostentamento e di crescita per le Pmi nazionali, lo zoccolo duro della nostra economia.
Già presenti con successo all’estero (in nazioni come Gran Bretagna, Francia, Usa e Giappone) i Pir coniugano, infatti, l’esigenza da parte delle famiglie italiane di trovare un investimento di
lungo periodo conveniente in termini fiscali con la necessità da parte delle piccole e medie imprese italiane di trovare investitori qualificati per restare competitive sui mercati internazionali.
Chi li sottoscrive investe infatti in Pmi nazionali contribuendo di fatto a rilanciare la nostra economia. Ogni singolo Pir prevede un investimento minimo di 500 e un importo massimo di 30 mila euro l’anno che deve essere mantenuto per almeno 5 anni con un importo complessivo massimo di 150 mila euro. ll 70% di quanto investito deve essere destinato a strumenti finanziari (obbligazioni, azioni e quote di fondi di investimento), emessi da imprese italiane o da realtà europee con una stabile organizzazione in Italia. Di questo 70%, almeno il 30% deve essere investito in strumenti finanziari emessi da imprese che non sono inserite nell’indice Ftse Mib di Borsa italiana.
I vantaggi per gli investitori e per le aziende
Per gli investitori, una delle principali prerogative dei Pir è quello di essere esentati dalle imposte
sui capital gain e sui rendimenti (12,5% sulle cedole e utili relativi a titoli di Stato e 26% su azioni e obbligazioni). E, nel caso in cui, al termine dei 5 anni dell’investimento non ci dovessero essere utili ma perdite, il risparmiatore dovrà rispettare le regole generali dei fondi per il credito di imposta.
Inoltre, non va dimenticato che limitando l’ammontare annuo che può beneficiare dell’esenzione d’imposta, i Pir incentivano la gradualità dell’investimento, aspetto che può portare a ridurre la volatilità complessiva soprattutto quando si scelgono prodotti di natura azionaria.
Interessante per il pubblico è anche il fatto che questi strumenti di investimento sono esenti dall’imposta di successione oltre al fatto che, per come sono strutturati, spingono le persone verso un investimento di lungo periodo, nel tentativo di mettere in un angolo quel mordi e fuggi sui mercati che negli anni passati, in alcuni casi , ha fortemente penalizzato molti piccoli e medi risparmiatori.
Ma notevoli sono anche i vantaggi per le imprese, soprattutto per le nostre Pmi che tramite i Pir possono contare su un canale di finanziamento alternativo a quello tradizionale bancario, dal quale, come evidenzia uno studio condotto dal Centro Studi di Unimpresa su dati Bankitalia, oggi deriva circa il 70% dei crediti alle imprese.
Spesso con forme di finanziamento a revoca, quindi che non consentono all’imprenditore di disporre di una liquidità stabile e strutturale, proprio quella necessaria ai piani di sviluppo e di espansione che rappresentano la linfa vitale del nostro tessuto industriale.
Al contrario, invece, le risorse messe a loro disposizione dai Pir potrebbero consolidare in modo consistente nel tempo la liquidità aziendale, favorendo gli investimenti, i progetti di crescita, il tanto auspicato salto dimensionale, fino alla quotazione in Borsa delle imprese più sane, quelle destinate a creare valore nel lungo periodo per i propri azionisti.
Risorse che alle Pmi, in questo caso, possono arrivare, come detto precedentemente, sia da azioni, ovvero il capitale di rischio, sia da prestiti obbligazionari, ovvero il finanziamento. Ovviando così a uno dei limiti degli ultimi 50 anni della storia italiana: l’accesso al capitale, che sta alla base del capitalismo.
ARTICOLO TRATTO DA FinRoad MAGAZINE; settembre 2017