In una società in cui le persone vivono sempre più a lungo, l’eredità si sposta sempre più in là. Qualche osservatore dice che di questo passo arriverà agli eredi alla vigilia della loro pensione, vanificando il suo ruolo di venture capital o di startup famigliare. In molti casi, davanti a figli grandi se non già anziani che hanno compiuto il proprio percorso autonomamente, l’eredità dei padri rischia di essere già implicitamente destinata a saltare un giro e finire direttamente ai nipoti.
Forse per questo non è raro incontrare qualche cinquanta-sessantenne irritato che comincia a pretendere la sua parte. Come essere invitati a una cena, ma il banchetto non inizia mai. Per la prima ora di ritardo si tiene botta per buona educazione, ma la seconda mette a dura prova e si comincia ad essere sfrontati. Guarda caso, molte di queste persone sono, come si diceva una volta, di sinistra e in alcuni casi in profondo dissidio con quel genitore e i modi in cui a suo tempo ha costruito la sua ricchezza: con la sua impresa, con i suoi amici, con i suoi metodi, con le sue ambizioni. D’altronde è proprio ciò che da giovani si contesta. Singolare poi, però, da persone mature, pretendere il frutto di quanto aspramente criticato.
Peccato veder scippare in questo modo alla generazione dei padri il piacere di donare. Non dovrebbe essere un dono, di fatto, l’eredità? Non per niente si associa, in campo giuridico, alla donazione quale atto di liberalità. Che bella espressione. Atto che prevede la libera scelta di arricchire un’altra persona senza pretendere nulla in cambio. Quando avremo perso anche questa capacità suprema, avremo davvero perso tutto ciò che ci fa esseri liberi. Proprio in virtù dello scollamento temporale che vede genitori anziani sopravvivere all’età matura dei figli e finire per destinare la propria eredità ai nipoti, qualcuno ha scelto la via più pragmatica, inventandosi modi di anticipare l’eredità in vita, cedendo subito l’uso di un patrimonio e rimandando il trasferimento di proprietà a dopo la morte, come nel trust, oppure effettuando il passaggio di nuda proprietà con riserva di usufrutto a vita per sé e il proprio coniuge. Oppure ancora con il patto di famiglia nel caso delle imprese. E chissà quanti altre soluzioni non stiamo menzionando. Ma l’anticipo dell’eredità, imposto da una longevità inedita, come cambia il senso dell’eredità? È per questo più dono? Meno dovuta? Come cambia la successione se la si svincola dal concetto di morte? Lo abbiamo chiesto a Luigino Bruni, professore di Economia Politica all’Università Lumsa di Roma. Saggista e giornalista, collabora regolarmente con Avvenire.
«Mi piace questa idea che si possa guardare all’eredità come dono. Anche se la parola patrimonio ha origine etimologica nelle parole padre e dono (pater munus), dono dei padri. Ma il dono che eventualmente ci fanno i padri con la loro eredità non è solo necessariamente fatto di un patrimonio materiale; c’è anche una grandissima parte di beni immateriali di cui spesso non si tiene conto», ha detto a Mente & Finanza Bruni. «E fino a che punto l’eredità è un bene? Conosco svariate persone che hanno deciso di lasciare la propria ricchezza a fondazioni o associazioni filantropiche per evitare che “ricadesse” sui propri figli, condizionandone lo sviluppo personale con il vincolo di un privilegio. Ricordo Benigni, che quando ricevette l’Oscar disse “ringrazio i miei genitori per avermi regalato la povertà”, perché da essa nasce lo sprone ad essere migliori, a cercare la propria strada, a impegnarsi».
Non sembra siano in molti a considerare la ricchezza dei padri un limite allo sviluppo personale…
Guardi, basterebbe coglierne il limite allo sviluppo sociale. Mettiamola così: la ricchezza di ieri condiziona l’impegno individuale e la giustizia sociale di domani, e impedisce che il mercato premi il talento. Ecco perché normalmente l’eredità viene tassata. L’idea che sta alla base è che le ricchezze costruite dai padri non sono dovute solo alle loro capacità ma anche un po’ al contesto politico-economico nel quale hanno operato, all’aver potuto studiare gratis, a tutta una serie di opportunità che quel dato paese era in grado di offrire, dagli operai che sapevano fare bene il loro lavoro ai servizi pubblici che permettevano loro di mettere la propria opera al servizio dell’imprenditore. Per questo motivo la ricchezza dei padri appartiene un po’ anche allo Stato e allo Stato deve tornare, in parte, quando passa ai figli. Nella minima parte di una componente comune.
Una minima parte che in Italia non è più praticamente dovuta grazie alle franchigie, salvo che per i patrimoni più consistenti… Ma vorrei che parlassimo dell’anticipo dell’eredità in vita, cosa ne pensa?
Ho affrontato di recente il tema con una riflessione sulla parabola del figliol prodigo. Se ricorda, parla di un padre con due figli. Un padre ricco, questo si capisce. Uno dei due figli, il più giovane cui alla morte del padre sarebbe spettata una parte minore dell’eredità (un terzo, perché la parte più importante sarebbe andata al fratello maggiore), chiede al padre di anticipargli la sua quota. Ha in mente di allontanarsi dall’azienda agricola di famiglia e trovare la sua strada altrove. Nel mondo ebraico c’era un divieto esplicito contenuto nel libro del Siracide di chiedere al padre in vita un anticipo dell’eredità. Era interpretato come un modo per augurargli la morte… Ma il padre capisce e, rompendo il vincolo della legge, acconsente facendo un doppio gesto di liberalità: promuovendo sia la propria libertà di assecondare il figlio, sia quella del giovane di andarsene e decidere della propria vita. In questa storia il primo atto sovversivo non lo fa il figlio, chiedendo l’anticipo dell’eredità e andandosene a sperperarla, questo dice la storia in seguito, da qualche altra parte. Lo fa il padre concedendogliela. L’eredità nel mondo ebraico, ma non solo, era l’anello di congiunzione tra le generazioni, teneva viva la promessa e l’alleanza tra loro. Ma a questo padre non mancava certo la capacità di restare unito ai propri figli. Lo dimostra dando al più giovane i mezzi per essere libero ma aspettando il suo ritorno ogni singolo giorno, tant’è che quando davvero costui torna, lo trova sulla porta da attenderlo e ad abbracciarlo. È la storia di un ritorno a casa, non tanto di un perdono. Così è la vita vera.
In questa parabola però c’è un’altra figura, quella del fratello maggiore che non ha mai abbandonato il padre, ha continuato ad obbedirgli e a lavorare nell’azienda di famiglia, e prende male la festa per il ritorno del fratello scapestrato. Come si spiega questa morale che potrebbe riguardare tanti figli anche ai giorni nostri? Non è raro il caso di genitori che nel pianificare la propria successione privilegiano magari il figlio più debole, quello che ha tratto meno giovamento dal capitale umano e sociale della famiglia e dall’eduzione e dall’istruzione ricevute.
l diritto di sbagliare che il padre consegna al figlio con la sua parte di eredità è uno dei diritti fondamentali dell’uomo, di ogni figlio e di ogni giovane; la precondizione per la libertà e per l’adultità. Forse è proprio grazie a questa precondizione che, quando il figlio minore si trova nella povertà dopo la sua fuga e riconosce il suo fallimento, dice «mi alzerò». Il padre nei suoi confronti ha un atto di misericordia e nulla è più incondizionale di un atto di misericordia. Nulla è più libero. Non sapremo mai quanti passi di liberazione dalle condizioni più buie iniziano perché qualcuno ci ha guardato con misericordia. Qui il figlio maggiore è esponente di quella visione retributiva della fede e delle relazioni lette come dare-avere, ben nota nella Bibbia. È anche immagine di quella fraternità rivale e antagonista che accompagna l’intera Bibbia, da Caino e Abele in poi. Ma è anche il rappresentante delle ragioni del merito e della meritocrazia, che Gesù sistematicamente contesta nella sua predicazione. Il padre al figlio maggiore risponde «Tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». La libertà del padre nel disporre della propria ricchezza a favore dei figli, buoni o cattivi, fedeli o contestatori, è la prova della valenza di dono dell’eredità. Rappresenta l’amore del padre e come tale è incondizionale e, certamente, non meritocratica.
Intervista a Luigino Bruni, economista, saggista, editorialista di Avvenire, è ordinario di Economia Politica e coordinatore del Dottorato in Scienze dell’economia civile all’Università Lumsa. Storico del pensiero economico con un forte connotato filosofico e teologico, è personaggio di grande rilievo e riferimento di confronto della moderna economia civile e di comunione, per Mente e Finanza.
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