Quanti italiani sono davvero preoccupati per le loro pensioni future e quanto, eventualmente, lo sono? In termini generali tutti, chi più chi meno. In termini personali, nessuno di noi davvero sente il problema come un rischio che lo tocca da vicino. Che qualcosa non vada sulle pensioni l’hanno percepito tutti; la riforma Fornero, gli esodati, poi quota 100. Il comune cittadino non ha le idee chiarissime, ma ha capito che qualcosa non va più come prima. Prenderemo meno soldi e chissà quando. Questa, la sintesi. Dobbiamo già lavorare fino a 67 anni, tra un po’ saranno 69 e arriveremo a tirare la carretta ancora a 70 anni…

Purtroppo nei confronti del problema pensionistico abbiamo lo stesso atteggiamento che abbiamo di solito con tutto ciò che è pubblico: ci prepariamo scetticamente ad essere di nuovo vittime dello Stato che, come al solito, ci darà meno soldi di quanti ce ne aspettiamo e chissà quando. Questo atteggiamento che oppone la resistenza di una schiuma di superficie ma si rifiuta di andare a fondo, catalogando la crisi del sistema pensionistico come l’ennesima fregatura dei politici, aumenta il distacco tra cittadini e classe dirigente e impedisce una presa di coscienza senza la quale è impossibile cautelarsi dai rischi previdenziali. Ma quali sono questi rischi? Analizziamo la questione oggettivamente. Per aiutarci a comprendere, partiamo da una rilettura dei capisaldi del nostro sistema previdenziale.

Il sistema pensionistico italiano

Nel sistema pensionistico pubblico italiano, i lavoratori finanziano con i loro contributi la pensione di chi si è già ritirato dall’attività lavorativa, contando sulla convenzione implicita che quando sarà il loro turno potranno andare in pensione sostentati dai contributi di chi lavorerà a quell’epoca. Se in passato, cono il sistema di calcolo retributivo, il reddito da pensione veniva calcolato sulla retribuzione media degli ultimi 5 anni, con le riforme recenti si passa a un diverso sistema di calcolo, detto contributivo perché l’assegno pensionistico sarà calcolato sui contributi realmente versati da un individuo durante la sua vita lavorativa.

Un sistema nel quale i lavoratori attuali pagano i contributi per sostenere i pensionati attuali si chiama sistema a ripartizione e si fonda su principi solidaristici e mutualistici che implicano un accordo sociale tra individui appartenenti a diverse generazioni, una specie di “patto intergenerazionale”. Come si può facilmente intuire, il sistema a ripartizione si mantiene in equilibrio se i lavoratori in attività sono in grado di finanziare quelli in pensione. Infatti il sistema è nato nel secondo dopoguerra, quando c’erano molti più giovani in età lavorativa che anziani, le carriere lavorative erano lineari e costanti, gli anziani andavano in pensione mediamente per una decina scarsa di anni prima di passare a miglior vita.
Per decenni le promesse pensionistiche sono state di fatto sorrette dalla demografia, oltre che dalla crescita economica. Ma oggi la situazione non è più la stessa.

Il problema demografico italiano

In larga parte del mondo, soprattutto nei Paesi più sviluppati, stiamo assistendo a una rivoluzione demografica che segna un invecchiamento assolutamente inedito della popolazione, galoppante in alcuni paesi, come tutta Europa, Cina, Giappone e Italia, bilanciato dalla forte natalità in paesi come l’America Latina, disinnescato in Africa dal continuo afflusso di nuovi nati. Ma presente ovunque. In particolare, nel nostro paese stiamo assistendo a:

  • aumento continuo del numero degli anziani (attualmente 1 ogni 4 italiani, per metà secolo le previsioni dicono 1 ogni 3);
  • aumento continuo della longevità, con allungamento corrispondente del tempo di pensionamento (l’aspettativa di vita attuale di 85 anni per le donne e 80 per gli uomini è prevista alzarsi per metà secolo a 90 anni per le donne e 84 per gli uomini) con un periodo pensionistico che potrebbe durare 25/30 anni;
  • crollo delle nascite sotto l’indice di sostituzione (2,1 è il numero di figli per donna che consentirebbe di mantenere in attivo la popolazione, sostituendo i genitori alla loro morte, ma in Italia siamo a 1,3) e pertanto sempre meno forza lavoro in grado di versare contributi.

La Ragioneria dello Stato, nel suo rapporto del 2019, fa riferimento a tre “momenti cloux” nelle previsioni demografiche e del rapporto tra queste e il sistema pensionistico:

  • 2030-2040: picco massimo del numero di pensionati a causa dell’accesso alla pensione dei babyboomers (nati tra il 1946 e il 1964, la generazione più numerosa della storia). Inoltre in questo periodo accederanno alla pensione le ultime generazioni il cui assegno pensionistico viene calcolato con regime misto e le prime con solo calcolo contributivo;
  • 2045-2070: si riequilibra il rapporto pensionati/occupati grazie all’estinzione della generazione dei babyboomers.

Gli anni più significativi secondo le previsioni:

  • 2032 andranno in pensione più di 1 milione di baby boomers, quelli nati nell’anno 1964;
  • 2044 i pesi delle classi anziani e giovani si ribaltano, a scapito di questi ultimi;
  • 2065 per la prima volta ci si aspetta il doppio di decessi rispetto alle nascite.

Invecchiamento e longevità in Italia

La transizione demografica consta dei tre fenomeni paralleli che abbiamo visto e che dovrebbero sempre essere presi in considerazione insieme per dare una visione olistica di quella che appare una vera e propria rivoluzione demografica, cogliendone i rischi ma anche le opportunità:

  1. Aumento continuo del numero di anziani;
  2. aumento progressivo ma costante dell’aspettativa di vita;
  3. diminuzione continua della natalità.

Le componenti quantitative e qualitative di questo fenomeno di invecchiamento della popolazione mondiale andrebbero valutate sempre insieme e molto attentamente. Dietro il rischio oggettivo di far coincidere l’invecchiamento mento e la longevità della popolazione con una riduzione della produttività totale e un aumento delle spese sanitarie, assistenziali e pensionistiche, esiste però l’opportunità di ridisegnare le politiche sociali e imprenditoriali in modo da agevolare le persistenza degli anziani in attività, avvantaggiandosi delle capacità produttive e dell’expertise di una classe sociale che sta ridefinendo il modo in cui l’individuo invecchia, scardinando vecchi cliché che la volevano inabile al lavoro fin dall’inizio della fase del pensionamento.
Di fatto la longevità potrebbe essere percepita come il lato buono dell’invecchiamento della popolazione, purché si distingua l’età cronologia dall’età biologica: la confusione tra i dati nominali e i dati reali potrebbe infatti indurre a una sottovalutazione della componente rivoluzionaria dell’invecchiamento della popolazione. Una società che invecchia non è un buon quadro; una società longeva dove le politiche sociali permettano di rivedere il ruolo degli anziani potrebbe rivalutare il modo in cui gli individui invecchiano, di fatto leggendo il fenomeno come individui che rimangono giovani più a lungo, piuttosto che individui che invecchiano di più. La crescita economica favorisce l’invecchiamento della popolazione, più rapida l’una più rapido l’altro. È quello che è successo nel Giappone del dopoguerra. Le economie europee sono cresciute invece più gradualmente producendo un invecchiamento progressivo ma più lento della popolazione. Questo è un fattore positivo che permette di adeguare la società a un’aspettativa di vita inedita, promuovendo una nuova narrativa della vecchiaia. Come si evince dai numeri, già oggi la transizione demografica assume carattere di straordinarietà nel nostro Paese. In prospettiva, nel corso di questo secolo, il fenomeno si acuirà fino ad assestarsi.

L’impatto della demografia sui conti pubblici italiani

L’effetto della demografia sui conti pubblici è inevitabile:

  • il numero crescente di anziani influisce su un aumento della spesa pensionistica, anche al netto delle riforme in atto, il che potrebbe portare a manovre fiscali per sostenerne il costo;
  • l’aumento continuo dell’aspettativa di vita fa presagire anche un aumento della spesa sanitaria e di long term care, cioè di assistenza a lungo termine per anziani non autonomi, nonché la possibilità che il monte contributivo, dovendo sostenere i pensionati correnti per un tempo più lungo, risulti insufficiente la sperequazione costi/benefici a carico dei giovani potrebbe portare a una tensione intergenerazionale;
  • la denatalità provoca una progressiva diminuzione della forza lavoro, con ripercussioni sulla produttività del Paese, quindi sul Pil e sul suo rapporto con il debito pubblico;
  • l’aumento prevedibile del numero di anziani non autosufficienti e della loro permanenza in famiglia rappresenta un aggravio del peso che essi esercitano sul welfare famigliare.

Articolo pubblicato su Patrimonia & Consulenza a cura di Emanuela Notari 

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