Flessibilità, lavoro agile, resilienza. Le parole che vanno per la maggiore nell’era della pandemia affondano tutte le loro radici nel concetto di movimento. Anche la resilienza, che erroneamente si associa alla resistenza, differisce da questa proprio perché si basa su una interpretazione evolutiva e dinamica della tenuta: chi è resistente tiene duro, chi è resiliente si modifica. Tutta l’evoluzione della natura e, con essa, anche dell’uomo si basa su questa capacità. Chi si modifica sotto lo stress degli eventi avversi sopravvive, altrimenti c’è solo l’estinzione. Se non ti pieghi, ti spezzi.
Secondo l’illuminante opera di disamina di Nicholas Nassim Kaleb, autore de Il Cigno Nero, l’opposto della fragilità è l’antifragilità, non on la robustezza. La flessibilità, piuttosto, frutto di una indole pregressa o di un allenamento ai cambiamenti, agli stress, agli eventi contrari.
La necessità, è noto, allena la capacità di immaginare, di speculare, di ipotizzare. Anche nelle aziende, dove la pandemia ha rafforzato il ruolo di quello che in inglese si chiama ERM, enterprise risk management, e, in particolare, la valutazione del rischio di eventi a bassa probabilità ma ad alto impatto. Come una pandemia, appunto, ma anche un terremoto, un’inondazione, un cyber attacco, una frode, l’esaurimento di una materia prima. Eventi improbabili che però succedono, tant’è che il ruolo dell’ERM in questo caso non è quello di valutarne la probabilità, ma piuttosto l’impatto sugli asset principali dell’azienda: la sua value proposition, la sua reputazione, la sua capacità di margine.
Per esempio, la pandemia e la chiusura dei trasporti durante i lock-down hanno evidenziato in certe industrie il ruolo cruciale della loro supply chain e, complice l’automazione che riduce il vantaggio economico della manodopera nei paesi poveri, molte aziende stanno cercando di ridurre la distanza geografica tra la casa madre e le parti cruciali della propria supply chain. Altri hanno capito che, non potendo riportare a casa la supply chain, è meglio diversificarla geograficamente piuttosto che concentrarla in un solo posto nell’eventualità di uno stress localizzato: una pandemia, una catastrofe naturale, una sommossa popolare, uno sciopero ad oltranza, un incendio di grandi proporzioni.
Rischi di danneggiamenti ma anche rischi di mancate opportunità sono trattati alla stessa stregua. Un recente articolo di approfondimento sul tema di McKinsey suggerisce l’adozione di un metodo per la valutazione dei rischi di eventi a bassa probabilità ma alto impatto.
La prima mossa è la valutazione del core value dell’azienda. Qual è il suo valore competitivo? Da cosa non può prescindere? Qualità della materia prima, prezzo, reputazione, distribuzione. Tutte queste cose sono importanti, ma alcune di esse sono vitali per la sopravvivenza dell’azienda.
Una volta inviduate, è il momento di immaginare i rischi meno probabili, quelli contro i quali è più difficile se non impossibile assicurarsi, ma più pericolosi per la sussistenza degli elementi vitali della competitività dell’azienda.
A questo punto si posizionano i rischi suddetti – definiti predictable surprises – su un grafico cartesiano dove sull’ordinata, quindi in verticale, sta l’ampiezza dell’impatto negativo sull’azienda e sull’ascissa, in orizzontale, la certezza dell’impatto. Quindi in alto staranno gli eventi con un alto impatto sulla sopravvivenza dell’impresa e a destra quelli di cui l’azienda conosce con certezza il tipo di impatto.
Gli eventi che si collocano in alto a destra, il cui impatto sulla vitalità dell’azienda è alto e noto, necessitano di investimenti per prevenzione e riduzione degli effetti disastrosi.
La conoscenza del rischio e le strategie di ERM possono muovere sulle due assi lo stesso evento che, nel tempo, potrebbe diminuire la propria portata a danno dell’impresa che ha assunto contromisure preventive o i cui effetti negativi siano stati studiati meglio da parte dell’impresa. È la ragione per la quale aziende con la stessa value proposition potrebbero collocare lo stesso rischio in posizioni diverse a causa di diverse condizioni e variabili.
Come le aziende petrolifere o chimiche che, a fronte di un rischio risarcimento per danni dovuti a perdite e inquinamento, suddividono la produzione in diversi soggetti legali per limitare il rischio a un’entità produttiva più circoscritta.
Scendendo dalle alte sfere delle imprese e corporation a noi comuni mortali, possiamo immaginare una persona non più giovanissima che vive da sola e si pone il problema di un evento psicofisico che ne riduca l’autonomia in tarda età. L’evento è in alto a destra nella sua griglia di valutazione, per l’ampiezza del danno e la certezza dell’effetto negativo che avrebbe sulla propria vita. Cosa fa? Stipula una polizza Long Term Care, migliora il proprio stile di vita cercando di ridurre le abitudini che possono aumentare le probabilità del rischio non autosufficienza e si assicura di vivere in un contesto sociale di supporto.
Naturalmente “l’unità di crisi” aziendale incaricata di valutare rischi a bassa probabilità e alto impatto deve esercitarsi in simulazioni, essere scevra da bias di eccessivo ottimismo, fatalismo, ancoraggio ad esperienze del passato, avvalersi di esperienze e prospettive diverse e dell’aiuto di consulenti in grado di valutare condizioni esterne per l’azienda scarsamente valutabili che però ricoprano un ruolo nel determinarsi di un evento avverso.
Le misure preventive individuate possono essere adottate immediatamente o rimandate al prodursi di un segnale cosiddetto trigger che indichi l’aumentata probabilità dell’evento avverso, sempre che tra questo e l’evento esista una finestra di tempo nella quale correre ai ripari. Il Covid 19 ci ha fatto scoprire più fragili, ma allo stesso tempo ci allena all’anti fragilità.
Testo a cura di Emanuela Notari
Diritto d’autore: Photo by Drew Beamer on Unsplash