Carenze e ritardi nell’approvvigionamento delle materie prime e della componentistica, crisi energetica, instabilità geopolitica. Tre dei 4 grandi problemi delle aziende trascendono la loro propria sfera di azione e regolamentazione. Ma il fattore risorse umane è al tempo stesso un problema e una grande opportunità sulla cui sfera l’azienda può intervenire.
Se non si può porre rimedio alla carenza di comunicazione tra università e imprenditoria, che scolla la formazione presente dal futuro professionale dei giovani, né tantomeno si può riparare per propria iniziativa l’inverno demografico del Paese, si può però cambiare la gestione delle risorse umane nelle aziende, a favore delle stesse aziende e delle persone che vi lavorano.
È la tesi di un nuovo libro, Humanizing Human Capital, di Solange Charas, docente presso la Columbia e la NY University, e Stela Lupushor, membro del Conference Board di Fortune 500 e a capo della Reframe Work Inc. La tesi del libro è che tradizionalmente l’approccio alle risorse umane si è basato su specializzazione e standardizzazione, e su una frammentazione di ruoli: una persona (o un gruppo di persone) gestisce il reclutamento, un’altra si occupa dei benefit e del welfare, una ancora della formazione e del subentro di nuovi talenti. Nessuno però è responsabile del successo personale dei lavoratori. Nessuno ha nella propria job description occuparsi di ciò che sperimentano i lavoratori nella loro vita aziendale: un approccio centrato sui processi piuttosto che su come i lavoratori vivono il proprio lavoro.
Investire sostenibile: quanto vale il Roi delle risorse umane
Questa è la ragione principale della fuga dei cervelli non tanto dalle patrie provincie ma dalle aziende. Così il Paese è spaccato tra chi non ha lavoro perché non è stato correttamente indirizzato (molti giovani ma anche molti senior di cui più nessuno si occupa perché considerati prossimi alla data di scadenza) e chi ha più di un pretendente ed è in grado di dettare le proprie regole.
Le aziende che credono ancora che il loro maggior azionista sia il cliente tendono a perdere il treno della centralità delle risorse umane. Chi invece rivoluziona il proprio modo di gestire i lavoratori – dipendenti e collaboratori esterni – a vantaggio di essi stessi, dell’azienda e della società, ha una probabilità di ri-partire avvantaggiato. Sembra chiedere troppo, ma la logica sottostante è che se sono soddisfatti i lavoratori, il profitto arriva e quindi è soddisfatta l’azienda, prodotti e servizi sono fatti meglio ed è soddisfatto il cliente e alla fine tutta la società ne gode.
Il fermo impresso dalla pandemia, come si sa, ha fatto riflettere molti lavoratori, meno responsabili risorse umane. Il costo del lavoro dovrebbe cambiare nome in investimento di lavoro, forse così la mentalità di chi impiega sarebbe più avanzata.
Le autrici indicano due obiettivi principali per gli HR:
- prima di tutto quantificare l’impatto che l’investimento in capitale umano ha sull’azienda, in un numero di ROI del personale, in modo che sia anche più concreto e semplice da spiegare al management. A fronte di ogni euro speso in capitale umano, di quanto aumenta la performance finanziaria dell’azienda? Basta un algoritmo ben studiato e la cosa è fatta. E’ fondamentale stabile un punto zero per lavorare a un incremento di quel rapporto. Secondo una ricerca condotta dalle due atrici americane, un incremento del 5% del ROI del capitale umano può arrivare ad avere un impatto del 25% sulla profittabilità dell’attività. La leva è enorme: a fronte di incrementi minimi si ottengono grandi effetti sul bottom-line, specie nei settori a più alta intensità di lavoro umano;
- il secondo obiettivo indicato nel libro è quantificare il costo degli attriti, ovvero il costo di conflittualità interne e sabotaggi emotivi alla collaborazione. In euro reali.
Testo a cura di Emanuela Notari
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