La morte di Silvio Berlusconi sta già facendo parlare della sua eredità. È difficile che un uomo come lui con lo stuolo di avvocati e consulenti che aveva non abbia provveduto in maniera avveduta a come distribuirla, sia in quanto patrimonio sia in quanto aziende. Le più importanti infatti erano già state suddivise tra i figli: Piersilvio a Mediaset, Barbara a Mondadori. La sua discesa in campo l’aveva costretto ad allontanarsi dalle sue creature e forse questo è stato proprio il regalo, in senso successorio, che ha fatto alle sue imprese. L’ultima, quella con il compito di distratto dalle altre, infatti, doveva ancora nascere. Era Forza Italia. Quella che fatica di più a voltare pagina perché ne era rimasto alla guida fino all’ultimo e nessuno aveva mai nemmeno considerato possibile che il Cavalierie un giorno sarebbe uscito di scena.

Ma non è proprio quello che succede anche con molte piccole medie imprese dove né il titolare né i suoi familiari lavorano a un’ipotesi di futuro senza di lui/lei? Secondo alcuni recenti dati Istat oltre tre quarti delle 780.000 imprese con almeno 3 dipendenti e la metà delle 24.000 imprese con un fatturato dai 10 mln ai 50 mln sono guidate da una persona fisica: il fondatore. E mediamente il 2% di queste, 12.000 imprese, ogni anno devono affrontare un passaggio generazionale. Va sempre bene? Sia che le aziende vengano messe in mano ai figli, sia che finiscano a un discendente prescelto e gli altri compensati in quote o altro patrimonio, sia che ci si affidi a un manager esterno, i numeri non sono sempre confortanti:

  • nel 56% dei casi la gestione dell’impresa ha fatto acqua dopo soli 2 anni;
  • in 1 caso su 3 c’è un calo di fatturato;
  • nel 9% dei casi si chiude l’attività.

L’impressione è che a questi imprenditori manchi tutto tranne la consapevolezza che dovrebbero provvedere alla propria successione, prepararla e prepararsi per tempo. Quello che manca forse è la capacità di sostituire lo scopo individuale rappresentato dall’azienda che ha nutrito la prima parte della vita con un altro scopo per la seconda parte di vita. Così l’azienda che dovrebbe essere considerato un bene sociale di cui l’imprenditore è socio di capitale, finanziario e umano, viene considerata una proprietà. Ma può essere una proprietà un organismo vivente? Anche considerandola un’opera d’arte, apparirebbe chiaro che sebbene la proprietà dell’ingegno spetti al creatore, questi non può distruggerla, non ne può disporre fino a questo punto perché il suo valore culturale e sociale ha travalicato i confini della proprietà privata.

Sostituire il legame emotivo fortissimo che lega l’imprenditore all’impresa incarnandone lo scopo di vita con altro impegno, sogno, opera della creatività che ne prenda il posto é difficile ma sarebbe non solo il modo migliore per lasciare la creatura all’evoluzione che l’aspetta proprio in quanto organismo vivente, ma aiuterebbe anche l’imprenditore o l’imprenditrice a reinventarsi per la seconda parte della vita, abbracciando una maturità generativa che supera in valore quanto generato. Si chiama senso di scopo, purpose si dice oggi, ed è fortemente legato non solo alla longevità – cui contribuisce offrendo prospettiva dove normalmente ci si ferma a guardare indietro, verso la scia della vita che è stata – ma anche alla longevità in buona salute, evitando il decadimento fisico e cognitivo che vengono insieme con l’inattività e la perdita di sé. Pensare di lasciare in buone mani la propria opera per dedicarsi a un nuovo progetto – imprenditoriale, di studio, di volontariato, di viaggio, non importa – aggiunge, non toglie. All’impresa e a se stessi.

Testo a cura di Emanuela Notari

Diritto d’autore: Foto di Nick Fewings su Unsplash

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