Negli USA la quota di giovani tra i 18 e i 29 anni che vivono con i genitori ha superato il 52%, battendo il record della Grande Depressione (48%), mentre il minimo storico del 29% risale agli anni 60. È allarme per il ciclo di vita ritardato: più tardi si esce da casa, più tardi ci si fa una famiglia propria e le esperienze necessarie a costruirsi una vita. Più della metà di questi giovani adulti, infatti, non ha un partner.
Eurostat, che prende in considerazione la fascia di età 20-29, dice che in Europa la percentuale di chi vive ancora a casa con i genitori è del 67%. Una media tra le prime posizioni di questa classifica, dove compare l’Italia con l’83%, e la Danimarca all’estremo opposto, con il 35%.
L’inverno demografico ha viziato i figli unici – unici figli – ingabbiando i genitori in una genitorialità perenne. Spesso, infatti, si tratta di Neet, giovani che non studiano né lavorano, ne produciamo più che in qualunque altro paese europeo; in parte si tratta di giovani che studiano perennemente annacquando gli esami universitari in un attendismo snervante o, se se lo possono permettere, sommando master a lauree in un tentativo di non decidere mai che strada prendere.
Ma non mancano anche quelli che, pur lavorando, non guadagnano abbastanza per vivere fuori casa. La crisi economica e la pandemia hanno calato l’asso di picche facendo rientrare i sogni di indipendenza dei giovani, rallentandone ulteriormente l’autonomia economica e la maturità. Per non parlare degli effetti dell’asfittica DAD (didattica a distanza) sull’educazione scolastica, anche universitaria, e sulla socialità. Quando tutto questo sarà passato ci renderemo conto di quanto il Covid 19 abbia inciso sulla crescita e sulla formazione dei giovani.
La percentuale in crescita di quanti rinunciano, volenti o nolenti, ad uscire di casa a una età in cui la generazione precedente scalpitava è solo uno dei tanti segnali. Nel caso specifico parla del disagio della mancanza di autonomia economica: “lavoretti” o Gig economy, eterni apprendistato con rimborso spese – un’occupazione, quando c’è, che non dà da vivere – e i posti di lavoro persi causa pandemia; in Italia la maggior parte dell’inoccupazione dovuta al Covid si rileva tra donne e giovani.
Ci sono poi gli universitari fuori sede che sono dovuti rientrare a casa per la chiusura degli atenei e l’imposizione della didattica a distanza. Questi non pesano sui dati americani, su quel 52%, perché anche se risiedevano in un college universitario risultavano comunque a carico delle famiglie. Ma fisicamente tornano a vivere a casa, fisicamente devono ripatteggiare l’orario di rientro notturno, sempre che non ci sia il coprifuoco… Anche essere giovani di questi tempi non è un mestiere facile.
Unico risvolto positivo, almeno in Italia dove non ci sono college, il notevole risparmio per i genitori sugli affitti esorbitanti delle città universitarie. Città che causa Covid hanno visto le tariffe crollare o, in alternativa, gli stacanovisti del ritorno alla normalità chiudere a chiave i propri appartamenti destinati a reddito in attesa che il mercato torni ad essere profittevole.
Genitori tardivi con i capelli bianchi, adolescenti tardivi con le chiavi di casa: i cicli di vita si sono stiracchiati. Di fatto la vita si è allungata e le fasi che prima erano così ben ritagliate nella progressione lineare di una vita prevedibile – uscita da casa, primo impiego, creazione di una famiglia, primo figlio – si strecciano, si adattano, si rincorrono. Così, genitori che hanno tirato il respiro di sollievo quando i figli sono andati a studiare in una grande città, tornando a vivere la vita di coppia che avevano perso, se li ritrovano alla porta, valigia in mano, a chiedere cosa c’è per cena. Pur costituendo un risparmio sugli affitti fuori sede, il rientro a casa o la permanenza in casa dei figli fino a una età così avanzata rappresenta un costo non indifferente sui bilanci familiari di genitori che, a rigor di logica, avrebbero già dato. La pandemia e la crisi economia che ne è seguita hanno visto aumentare anche il numero di senior che aiutano finanziariamente le famiglie dei figli, più di quanto accada in senso inverso, con giovani adulti che sostengono genitori anziani.
Basti il fatto che secondo le ultime analisi, le famiglie che ospitano un anziano hanno meno possibilità di superare la soglia di povertà delle famiglie che non hanno un anziano tra i propri membri.
Pwc offre alcuni dati relativi all’universo americano: nel 2019 il 45% dei giovani tra i 18 e i 29 anni ammette che i genitori li hanno sostenuti finanziariamente – un po’ o molto. A sentire l’altra campana, quella dei genitori, la percentuale sale al 60%.
L’effetto di questa tendenza dei giovani a restare in casa – quasi sempre imposta dall’instabilità economica e in alcuni casi scelta di comodo – è che i 50-60enni di oggi non smettono mai davvero il mestiere di genitori, perdendosi quella libertà che l’abbandono del nido di solito comporta.
Ma come tutte le medaglie, anche questa ha un’altra faccia: continuare ad essere genitori o tornare ad occuparsi di figli grandi può persino essere rivitalizzare per quelle persone che avevano preso l’incipiente vecchiaia con rassegnazione, chiudendosi in se stessi. Continuare a condividere la vita e la conversazione con figli giovani favorisce l’apertura mentale. Lo scambio intergenerazionale di competenze nell’ambito domestico contribuisce alla digitalizzazione dei senior e alla formazione alla vita familiare di giovani adulti che sono in grado di apprezzare gli esempi offerti in modo diverso, più profondo, da come l’avrebbero fatto a 16 anni.
Joe Coughlin, direttore dell’AgeLab del MIT, introduce un’altra nota positiva in quest’analisi, domandandosi se il rallentamento dell’uscita da casa dei giovani non sia anche l’effetto della nuova consapevolezza dell’aumentata aspettativa di vita, come a dire che nella vita c’è più tempo per fare tutto – quindi, perché correre?
Testo a cura di Emanuela Notari
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