Sole 24 Ore ha dedicato svariati articoli e due approfondimenti in speciali presenti in edicola al mondo degli Istituti Tecnici Superiori, scuole superiori professionalizzanti ad alto contenuto tecnologico che preparano i giovani in un’ottica di impiegabilità immediata ad alto contenuto professionale. E costituiscono un’alternativa alla laurea.
In altri Paesi europei gli ITS, che di volta in volta assumono nomi diversi declinando il concetto base nelle diverse lingue, sono molto più quotati e di fatto perché costituiscono quell’alternativa alla scuola superiore di secondo grado rappresentata dalle università che sì offrono cultura ma spesso poco o niente attrattiva per il mondo delle imprese. Poca tecnologia e nessuna relazione con le competenze cercate senza successo dal mercato del lavoro che è stretto ormai tra tre penurie diverse, materie prime, energia a costi sostenibili e skills, gli ingredienti di qualunque business produttivo.
Messa in ginocchio dalla pandemia, la supply chain ha scoperto il nervo esposto di pezzi interi di business demandati a fornitori lontani da casa, la guerra ha fatto salire alle stelle l’energia per far funzionare fabbriche e imprese e la proverbiale lentezza italiana nel comprendere dove va il lavoro continua a sotto o sovrappesare la laurea, tenendola lontana dal suo reale valore. Da una parte le famiglie scoraggiate dallo scarso potere commerciale del pezzo di carta davanti alla disoccupazione giovanile italiana, dall’altra chi ancora crede che senza laurea non sei nessuno. Ma come spesso succede, la verità non è né di qui né di là.
Manca in questo senso la stessa pianificazione che manca quasi sempre in casa nostra, sia che si parli di sviluppo energetico o industriale del Paese, sia che si tratti della gestione patrimoniale dei singoli cittadini. Forse le famiglie dovrebbero analizzare di più da dove vengono, quali sono le ambizioni e le attitudini dei figli (crescere i figli secondo le loro attitudini, dice la prassi della cerimonia di voti coniugali…), di quale tipo di patrimonio gode la famiglia e se è più verosimile che il figlio o la figlia lavorerà da dipendente o da imprenditore, nell’innovazione d’impresa o nella pubblica amministrazione, se dovrà lavorare appena possibile o se ci sono margini per disegnare una carriera… Per esperienza personale posso dire che comunque il cammino della vita porta continuamente fuori strada in una serie di “divagazioni necessarie”, quindi a poco vale pianificare, ma almeno aiuta a chiarire le idee al giovane di turno.
Gli Istituti Tecnici Superiori sono nati proprio per offrire un’alternativa alla laurea a quei giovani che volevano essere in grado di trovare lavoro appena terminato il ciclo di studi, più inclini a una competenza evoluta piuttosto che a una cultura accademica.
Sono 118 gli ITS in Italia che, citando il Sole 24 Ore, “offrono corsi biennali o triennali in settori tecnologici d’avanguardia”, con insegnanti per il 50% provenienti dalla pratica aziendale, in settori molto diversi tra loro che coprono 6 aree tecnologiche: efficienza energetica, mobilità sostenibile, nuove tecnologie della vita, nuove tecnologie per il made in Italy, tecnologie innovative per i beni e le attività culturali, e il turismo, tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Meccanica, creatività, sostenibilità, life sciences e servizi alle imprese.
La peculiarità, oltre al focus tecnologico in un Paese che ha poche skills tecnologiche da offrire alle imprese, sta nel fatto che queste scuole parlano con le aziende, disegnando percorsi formativi che vadano incontro alle esigenze del mercato del lavoro di oggi e prospettico, mischiando teoria e pratica, scuola, laboratori e stage aziendali. Una formula che ha dato il risultato straordinario di un tasso di occupazione dei ragazzi formati agli ITS dell’80%.
Così il PNRR ha deciso di sostenerli con un investimento di un miliardo e mezzo di euro in cinque anni, per far avvicinare i numeri delle scuole di alta formazione tecnologica italiane a quelli delle stesse scuole francesi e tedesche e l’offerta di competenze alla domanda. Non c’è niente di male in questo, niente di sincretico nell’allineare formazione e impiegabilità, anzi, guardando alla durata attuale e futura della vita, se la formazione e il suo continuo aggiornamento non garantiranno l’impiegabilità a lungo termine dell’individuo, la società della longevità rischia di accartocciarsi su se stessa.
McKinsey Health ha appena pubblicato un’interessante survey condotta in 20 Paesi per spiegare che si può davvero pensare di aumentare di 5/6 anni in buona salute l’aspettativa di vita globale, offrendo una lucida analisi di quanti e quali ambiti concorrono al benessere o al malessere dell’individuo, dai comportamenti individuali agli attributi personali genetici, finanziari e assicurativi, passando per contributi esterni (welfare, formazione scolastica, incentivi e trattamenti clinici) e attributi ambientali (sicurezza, trasporto, infrastrutture, tecnologie e minacce ambientali),
Manca una cosa. Employability. Che non vuol dire solo occupazione, vuol dire sapere di avere qualcosa da offrire al mondo del lavoro che il mondo del lavoro apprezza, prezza e incentiva. Vuol dire manutenere le proprie competenze e la propria cultura professionale perché duri tutta la vita, anche quando il ciclo lavorativo non durerà più 40 ma 60 anni, a fronte degli oltre 100 che la ricerca medico-scientifica ci promette.
Il beneficio finale è anche finanziario, ma non solo. Considerando il denaro un mezzo e non un fine, non si può ignorare come dalla employability della persona dipenda la sua soddisfazione, la sua autostima, il valore del suo contributo alla comunità sociale e nazionale, gli studi e il benessere dei suoi figli, l’età di pensionamento con tutto ciò che questa comporta, lo stesso tenore di vita nella fase produttiva e nella fase di quiescenza. Insomma il suo benessere in molti sensi, dalla salute in su e in giù.
La doppia guida de Il Sole 24 Ore agli Istituti Tecnici Superiori è andata in edicola il 31/3 e il 5/4.
Testo a cura di Emanuela Notari
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