Tutto il mondo sta vivendo sempre più a lungo, persino i Paesi cosiddetti giovani. In Italia e in Giappone si registra l’aspettativa di vita più alta (in realtà prima del Giappone arriva Hong Kong che però non essendo uno stato a sé non viene considerato nelle classifiche). Questa longevità associata alla denatalità tende a produrre un invecchiamento della popolazione, soprattutto nella “vecchia Europa”. Anche in questa classifica l’Italia è in testa, con un indice di fecondità di 1,2 figli per donna, chiaramente nemmeno sufficiente a mantenere in equilibrio nascite e decessi.
Altro dato di non poca rilevanza in questo quadro, solo 23 milioni di italiani sono realmente occupati, cioè il 58% del bacino di persone in età da lavoro, pari a quasi 39 milioni. La differenza, le persone cioè non occupate, sono 16 milioni, di cui solo 2,2 milioni in cerca di lavoro. Ciò significa che su una popolazione di quasi 60 milioni di abitanti, solo il 38% lavora sostenendo se stesso e buona parte del restante 62%, tra inoccupati, disoccupati, bambini e pensionati.
Questa enorme sproporzione sarebbe già di per sé un quadro tale da preoccupare chi ci governa. A ciò si aggiunga che la popolazione tende a diminuire tanto che le previsioni ci danno a 54 milioni per il 2070 contro i quasi 60 di oggi, ma all’interno di essa si riducono vieppiù i giovani mentre continuano a crescere gli over 65, oggi pari al 23% della popolazione ma per metà secolo già intorno al 33-34%.
Vuol dire che ci sarà sempre meno forza lavoro ma le persone a carico della parte attiva della società non diminuiranno, anzi.
Le riforme previdenziali, dovendo far fronte a questo quadro e all’aumento della aspettativa di vita che ha portato la fase di pensionamento a durare anche 25/30 anni, hanno dovuto agire su due fronti:
- rendere flessibile l’età di pensionamento adeguandola all’andamento dell’aspettativa di vita;
- cambiare il calcolo dell’assegno pensionistico da retributivo, basato cioè sugli ultimi stipendi, a contributivo, basato cioè su quanto realmente contribuito.
Pensioni: il passaggio a una contribuzione definita
Quest’ultima modifica, che non ha interessato solo l’Italia ma anche altri Paesi, in inglese suona più chiara: si usa dire da DB a DC, da Defined Benefit (beneficio definito, cioé assegno pensionistico definito) a Defined Contribution (contribuzione definita): si capisce così meglio il tenore del cambiamento da un quadro dove si sapeva quanto si sarebbe portato a casa a un quadro dove al massimo si quando si deve sborsare…
Alcuni punti chiave:
- La rivoluzione da DB a DC riduce di molto l’importo delle pensioni che, prima delle riforme, con il calcolo retributivo erano mediamente pari all’80% dell’ultimo stipendio per i lavoratori dipendenti e a riforme a pieno regime, se va bene, saranno pari al 65% circa. Vuol dire che il tenore di vita che prima si sosteneva con 100 dopo il pensionamento si deve sostenere con 65. In caso di lavoratori autonomi si scende a 50.
- Il sistema a contribuzione definita non aiuta a farsi idee precise di quanto si percepirà una volta andati in pensione, mentre l’indicizzazione dell’età pensionabile all’aumento dell’aspettativa di vita rende complicato sapere persino quando si andrà in pensione.
Mentre il sistema quindi alimenta l’incertezza, l’unico modo per rendere questa longevità sostenibile è pianificare la propria vecchiaia: sembra quasi un ossimoro. Quello che prima era valutato a spanne – quanto a lungo vivrò, a quanto ammonterà la pensione (tanto si sapeva che non avrebbe mai rappresentato una cifra di molto lontano dall’ultimo stipendio cui eravamo abituati), quanto a lungo dureranno i miei risparmi – oggi ha bisogno di un bilancino di precisone per evitare di sbagliare clamorosamente la rotta e trovarsi a corto di carburante quando la strada è ancora lunga.
Il vero cambiamento di fondo è che la responsabilità della qualità della vita, cioè del sostegno al proprio tenore di vita, è passato dallo Stato all’individuo.
Lo Stato, obbligandoci risparmiare parte dei nostri redditi da lavoro attraverso i contributi, ci garantirà la sussistenza, tutto il resto dipenderà da noi, da quanto bene o male avremo stimato la nostra longevità e pianificato redditi e gestione dei risparmi. Praticamente ci stanno passando i comandi dell’aereo mentre siamo già in volo e l’unico modo per tenere botta è rivedere continuamente la rotta con il secondo di bordo, il consulente finanziario: sapere dove si vuole andare, quanto tempo di volo si prevede e quanto carburante servirà, fare gli aggiustamenti di rotta necessari durante la trasvolata, contare su utili scali di rifornimento e strumenti di tutela adeguati. Ecco cosa, di fatto, è la pianificazione della longevità e forse la metafora di un velivolo che nessuno di noi comuni mortali ha mai guidato da solo e che adesso invece dipende dalle nostre scelte, dal nostro senso dell’orientamento e dagli input corretti del secondo di bordo, è utile per rappresentare la responsabilità che dovremo assumere.
Diventare genitori è una di quelle transizioni della vita alla quali nessuno ci ha preparato eppure viene a spontaneo, perché è scritto nel DNA umano; pianificare la propria longevità è transizione altrettanto delicata ma più difficile. Perché non ci sono precedenti nell’immaginario di chi ha sempre vissuto la pensione come un periodo di meritata disattenzione rispetto al mestiere di vivere e la pianificazione, al contrario della genitorialità, non è negli istinti umani. Eppure, questa generazione cerniera che per prima sta sperimentando una longevità finora inedita, traccerà la strada, scoprendo nuovi talenti anche in merito alle nuove responsabilità. Con l’aiuto dei professionisti deputati ad aiutarla.
Testo a cura di Emanuela Notari
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