Un recente articolo de Il Sole 24 Ore ha pubblicato una simulazione delle pensioni che aspettano i quarantenni di oggi su dati Inps ad opera dei magistrati contabili e inclusa nel rapporto sul coordinamento della finanza pubblica. La simulazione prendeva in esame diversi tipi di lavoratori attualmente occupati che, data l’età, saranno quindi percettori in futuro di una pensione interamente calcolata con il sistema contributivo che, com’è noto, basa il calcolo dell’assegno pensionistico sui contributi realmente versati in capo a una vita lavorativa e non, come in passato, sulla media delle ultime retribuzioni. E’ altrettanto notorio che il sistema di calcolo contributivo è penalizzante o, come ha giustamente osservato Alberto Brambilla (Itinerari Previdenziali) in una recente conferenza, non è il sistema contributivo ad essere punitivo quanto il precedente sistema retributivo ad essere stato generoso. I nostri padri che hanno lavorato in regime retributivo ricevono infatti una pensione per un periodo di tempo pensionistico anche di 20/25 anni che si avvicina all’80% all’ultimo stipendio. Ma se moltiplichiamo quell’importo per tutti gli anni di vita residua nell’epoca della longevità, appare chiaro come quel sistema regalasse indennità superiori a quanto effettivamente versato.

Con il sistema contributivo si stima che quella percentuale che originariamente era dell’80% rispetto all’ultimo stipendio per un lavoratore dipendente, sarà vicino al 65%. Nel caso di lavoratori autonomi anche il 45% o 50%. Chi si occupa di previdenza o di pianificazione della longevità lo dice da tempo. Ma le percentuali non sono efficaci quanto i numeri, i quali fotografano con chiarezza la necessità di previdenza integrativa, risorsa che però, secondo l’ultima relazione annuale della Commissione di Vigilanza sui fondi pensione (Covip), stenta a diffondersi proprio tra i giovani, con una penetrazione del 18,8% tra gli under 35 contro il 48,9% di chi ha tra i 35 e i 54 anni e il 32,3% degli over 55. Per questo il Governo sembra stare lavorando a un piano pensioni per i giovani contributivi.

Il rapporto della magistratura contabile ha messo in evidenza come, delle posizioni e professioni esaminate, quelle che risultano avere una prospettiva più confortante di assegno pensionistico sono le forze armate e il comparto sanitario, mentre i lavoratori autonomi, parasubordinati, coltivatori diretti, artigiani e donne sono i più fragili. La forbice va da uno “zaino contributivo” in essere (cioè ad oggi) mediamente rispettivamente di 235 mila e 178 mila euro delle prime due categorie ai 100 mila euro delle ultime citate, passando per un valore mediano di 137 mila per i lavoratori maschi privati.

Ciò può significare in termini di proiezione spannometrica su una carriera continuativa fino a 67 anni una forbice di reddito netto pensionistico mensile – su questo la gente normale ragiona e questo comprende meglio – tra i 1.700/1.800 euro delle forze armate e lavoratori del comparto sanità, 1.000 euro netti circa per i lavoratori maschi del privato, 700/800 euro per lavoratrici del privato, statali, lavoratori in mobilità o parasubordinati, ma anche artigiani commercianti e coltivatori diretti.

A tutto ciò si aggiunga che la riforma contributiva prevede, per chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996 come nel caso dei quarantenni, che chi ha stipendi più alti, contribuendo di più, potrebbe riempire lo zaino contributivo necessario per il pensionamento 3 anni prima di altri e andare in pensione anticipata a 64 anni, mentre agli stipendi più bassi o a carriere discontinue questo non sarà concesso e dovranno lavorare fino a 67 o persino 71 anni. Lo spiega benissimo Andrea Carbone di Smileconomy.

Testo a cura di Emanuela Notari

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Foto di Justin Veenema su Unsplash

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