Solo un italiano su due si dichiara orgoglioso della propria occupazione e vi riconosce un senso. È quello che gli esperti del tema chiamano disengagement. Non mi interessi più, non mi rappresenti, non condividiamo più niente. Me ne vado oppure resto a fare tappezzeria, che è un altro modo di andarsene auto-automatizzando la propria prestazione e lasciando che la rassegnazione congeli del tutto il coinvolgimento emotivo.
Un recente studio di BCG (Boston Consulting Group) Brighthouse che ha ascoltato i lavoratori di diverse aziende europee arriva alla conclusione che gli italiani sono tra i più disamorati nei confronti del loro lavoro e che il nostro Paese è quello con la percentuale più bassa di persone secondo cui la propria azienda ha definito chiaramente un “purpose”: uno scopo, una vocazione. Un terzo dei lavoratori italiani sarebbe addirittura disposto a guadagnare qualcosa meno pur di ritrovarsi nei valori della propria azienda. Aziende senza scopo quindi tenute in piedi da persone che, limitandosi al minimo sindacale della propria prestazione e astenendosi da una partecipazione emotiva, rischiano di perdere il proprio senso di scopo?
Il vecchio mondo nel quale il lavoratore “prestava” se stesso e la sua opera a una realtà produttiva per otto ore per ritornare alla propria realtà la sera non esiste più, la logica del sacrificio, della transazione che vuole che tutti i giorni si scambi la versione diurna di sé con un salario non esiste più. Non esiste più quella divisione netta, l’istanza di conciliazione vita/lavoro allarga il proprio senso non fermandosi alla dimensione temporale e logistica, ma chiedendo anche un allineamento valoriale. Si continua ad accettare di contribuire al risultato di un’intrapresa con il proprio lavoro, con l’aspettativa, però, di condividerne i presupposti e le ricadute sociali, di vedersi riconosciuti come collaboratori a tutto tondo, con una personalità e delle aspettative. Il lavoro dentro la vita e la vita dentro il lavoro. L’individuo ha sostituito il travet.
L’individualismo mette in discussione lavoro e rapporti di coppia
Parallelamente Istat inserisce l’instabilità della coppia tra le tendenze che si stanno affermando sempre di più nella nostra società, con un aumento importante dei single, non solo tra gli anziani vedovi, ma anche tra i giovani adulti. Gli avvocati divorzisti, se li porti sul tema, raccontano di un numero crescente di persone che anche in età più che matura decidono di separarsi.
Anche qui assistiamo a un surclassamento dell’individuo sul ruolo che riveste all’interno della famiglia o della coppia, a un prolungamento all’infinito di quella ricerca di sé che in epoche passate era propria della giovinezza. L’aumento dell’aspettativa di vita e l’importanza che le istanze individuali hanno assunto nelle società moderne spostano più in alto l’asticella di una relazione sentimentale soddisfacente e se anche qui prevale il disengagement, si cambia: finché c’è vita c’è speranza. E anche in questo caso a sparire è quel senso del sacrificio in nome del quale le generazioni più anziane sono state cresciute. Il dividendo di una relazione non è più appannaggio dei figli o dell’immagine sociale della coppia, ma viene reinvestito direttamente in continue riedizioni di futuro.
Difficile e inutile esprimere un giudizio; il sacrificio ha già fatto fin troppi danni e la vita è una sola. È però illuminante come atteggiamenti che osserviamo in un aspetto della nostra vita sociale – e che solo per un misto di torpore e incertezza non diventano comportamenti – vengano rinvenuti anche nella sfera privata, mossi dalle stesse istanze che definiscono con maggiore chiarezza l’aggiornamento dei valori che stiamo vivendo.
Testo a cura di Emanuela Notari
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