Uno dei maggiori enigmi della finanza è il fatto che gli investitori non allocano il loro denaro in modo ottimale sui mercati internazionali, ma sistematicamente preferiscono i titoli del loro paese d’origine. Questo fenomeno è definito home country bias (pregiudizio domestico). Tuttavia, negli investimenti esteri, la cultura del Paese di origine può influenzare in modo significativo la scelta dei mercati su cui investire e anche l’entità e la frequenza dell’investimento. Questo fenomeno è noto come foreign bias (cfr. Chan et al., 2005, o “bias dello straniero”) e ha ricevuto molta meno attenzione di altri bias.
La teoria Geert Hofstede e colleghi distingue alcune dimensioni in grado di catturare differenze interculturali:
- distanza dal potere – misura in cui le persone credono che il potere e lo status siano distribuiti in modo diseguale e lo accettano come il modo “corretto” di organizzare i sistemi sociali;
- mascolinità-femminilità – misura in cui una società enfatizza i valori maschili tradizionali (competitività, assertività, auto-realizzazione, ambizione, acquisizione di denaro), rispetto a valori femminili (educazione, assistenza, non mettersi in mostra);
- individualismo-collettivismo – misura in cui una società enfatizza il ruolo dell’individuo in contrapposizione a quello del gruppo;
- rifiuto dell’incertezza – misura in cui le persone sono a disagio in situazioni incerte, sconosciute o non strutturate;
- tendenza a identificare come orizzonte temporale il breve termine piuttosto che il lungo termine.
Uno studio di Beugelsdijk e Frijn (2010) dimostra come, man mano che aumenta la distanza culturale tra gli investitori e i loro titoli azionari, essi investano all’estero con minore frequenza, a causa della crescente difficoltà di interpretare gli ambienti di investimento in mercati culturalmente distanti. Inoltre, gli investitori avversi all’incertezza percepiscono gli investimenti stranieri più rischiosi di quanto non siano realmente e tendono a investirvi meno.
Coloro che provengono da società individualistiche o caratterizzate da forme autocratiche di governo, dove le performance sono attribuite più ad una persona che ad un team, tendono a essere più aggressivi nella loro asset allocation nei mercati esteri. Infine, nazioni che si sentono “vicine” e che hanno in comune la lingua tendono a investire più tra di loro, rispetto a paesi culturalmente più lontani. Questi studi mostrano che l’entità del sotto-investimento nei mercati esteri non è solo una scelta semplice tra mercati nazionali ed esteri, ma anche tra gli aspetti culturali specifici dei paesi.
Testo a cura di Emanuela Rinaldi, Ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli Studi di Udine e esperta di cultura ed educazione finanziaria, per Mente e Finanza.
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