Tutti i giornali hanno celebrato i 50 anni della legge che consente il divorzio nel nostro Paese. Era il 1° dicembre 1970. Il vero boom però si ebbe nel 2015, con la legge sul divorzio breve che, soprattutto nei casi di consensualità e in assenza di figli, diminuisce sensibilmente i tempi giudiziali. Ciò nonostante l’Italia resta sotto la media Europea con 1,53 divorzi ogni 1.000 abitanti. Va però segnalato che in Italia sono in diminuzione i matrimoni e senza matrimonio non c’è divorzio. Se il dato viene riparametrato, anziché sulla popolazione, sui matrimoni, ecco che saltiamo al 5° posto in Europa, con una percentuale crescente di divorzi in tarda età.
A peggiorare la situazione, anche se ancora temporaneamente, è intervenuta la coabitazione forzata h24 dovuta alla pandemia da Covid 19. I primi commenti dall’Osservatorio degli avvocati del diritto di famiglia parlava di un +30% di richieste di separazione/divorzio dopo il primo lock-down, adesso si parla di un +50%. Incremento peraltro registrato anche negli USA e in particolare in Cina e nel Regno Unito. Nei paesi dove i pub avevano sempre accolto le intemperanze alcoliche riparando le mura domestiche, la chiusura degli esercizi e il consumo alcolico in famiglia ha esasperato le tensioni alzando ulteriormente il numero delle rotture irreparabili, così come in molti altri Paesi si è avuto lo stesso risultato accompagnato, però, da un aumento preoccupante delle violenze domestiche. In Turchia sembra che le richieste di separazione/divorzio dal lock-down siano quadruplicate.
Come si dice della vecchiaia, la convivenza forzata e blindata dovuta al Covid 19 ha esasperato i difetti delle coppie: che era già in crisi ha ceduto, mentre chi invece viveva un’unione felice registra una maggiore coesione, come è il caso del Giappone, dove le coppie, abituate a una stressante routine di 12-14 ore fuori casa per lavoro, con la pandemia hanno potuto rilassarsi e godere del calore familiare. Per proprietà inversa alla diminuzione dei matrimoni, aumentano, in Italia, le coppie informali o cosiddette di fatto.
In questo quadro, la consulenza finanziaria si pone una domanda: visto che alle separazioni c’è poco rimedio, come può una coppia di fatto felice esprimere protezione reciproca non prevedendo la legge tutele formali in favore del convivente?
Ne parliamo con l’Avv. Roberto Lenzi, dello Studio Roberto Lenzi e Associati. «Intanto bisogna distinguere il profilo patrimoniale da quello personale/familiare. I conviventi non godono degli stessi diritti oggi riconosciuti ai coniugi e parimenti agli uniti civilmente. Soprattutto in sede patrimoniale, ovvero di successione» sottolinea Lenzi. «Per legge, infatti, il convivente non eredita dal partner deceduto. Il modo più semplice per proteggere il proprio convivente prospetticamente in vista del proprio decesso è, prima di tutto, il testamento. Solo attraverso testamento – che si può redigere in diverse forme, presso un notaio o in forma privata attraverso il testamento olografo – è possibile, secondo la legge italiana, disporre della cosiddetta “quota disponibile” a favore di una persona non erede. Tale quota va in genere da un quarto alla metà del patrimonio del testatore a seconda della composizione familiare e quindi, della presenza di altri eredi, poiché la rimanente parte del patrimonio costituisce serbatoio delle quote di legittima a favore di ascendenti, coniuge, discendenti e parenti fino all’8° grado».
Secondo Lenzi, se il valore della quota di riserva a favore del convivente viene sforata si mette lo stesso a rischio di azione di riduzione in caso gli eredi legittimi decidano di far valere i propri diritti. Lo stesso vale per un’eventuale donazione fatta in vita: se il suo valore eccede quello stabilito per legge nella quota disponibile, si rischia che a posteriori il convivente sia soggetto a restituire il valore della donazione o parte di esso. «Sempre a tutela del convivente, previo testamento con destinazione della quota disponibile, sarebbe utile formalizzare l’eventuale cessazione di matrimonio precedente» aggiunge Lenzi. «Non tutti sanno, infatti, che il coniuge separato ma non divorziato, in caso di decesso dell’ex coniuge, eredita tanto quanto un coniuge a tutti gli effetti. Quindi avrebbe diritto alla propria quota di legittima sottraendo risorse agli altri eredi e al convivente inserito in testamento attraverso la quota disponibile».
Quindi a tutte le coppie di fatto, per prima cosa secondo Lenzi, bisognerebbe consigliare di fare testamento destinando la quota di riserva al proprio partner e chiudendo pendenze pregresse. «Facendo però molta attenzione perché il totale sul quale la quota disponibile viene calcolata è il patrimonio effettivo al momento del decesso, comprensivo di eventuali donazioni fatte in vita» sottolinea Lenzi. «Inoltre, la quota destinata a persona non erede è tassata all’8%, diversamente da quanto accade per gli eredi diretti che godono di una tassazione inferiore (4%) e di una franchigia di 1 milione di euro (1.500 milioni per soggetti portatori di handicap grave)».
Un altro strumento possibile è la polizza vita il cui capitale, al decesso di chi l’ha stipulata, va interamente al beneficiario senza tassazione e senza che l’importo sia pregiudicato dai diritti legittimi degli altri eredi.
Si, ma ancora attenzione, perché se il capitale è fatto salvo da tassazione e diritti di eredi, i premi pagati nel corso del tempo da chi ha stipulato la polizza potrebbero entrare in una successione per il calcolo delle quote di legittima in quanto costituiscono donazione indiretta. Di fatto il modo più semplice di proteggere il convivente è e resta il testamento attraverso la designazione della quota disponibile. Sebbene in Italia i testamenti pubblici siano tuttora fatti da circa il 20% della popolazione, quindi solo 1 successione su 5 si apre sulla base di un testamento. Ancora vige l’idea scaramantica che sia meglio non parlare di testamento, nonostante questo sia il mezzo più economico, riservato e modificabile tutte le volte che si vuole per destinare il proprio patrimonio. Tanto più in presenza di un convivente.
Altrimenti succede come per il compagno di Lucio Dalla che, alla sua morte, si è trovato senza nulla e persino escluso dalla casa dove vivevano. Ma uscendo dal tema successione, durante la convivenza come si può proteggere il proprio partner che, agli occhi della legge, è un perfetto estraneo?
A questo proposito la Legge Cirinnà del 2016 ha introdotto i contratti di convivenza che possono venire stipulati con atto scritto e registrati presso l’Anagrafe. Questi contratti danno al convivente una serie di diritti diciamo “affettivi” che, per esempio, in caso di malattia o ricovero ospedaliero del partner, gli consentono di essere ammesso alle visite e di avere accesso alle informazioni sanitarie, o, addirittura, di essere designato quale legale rappresentante del convivente in caso di sua incapacità. Oppure ancora, in caso di decesso del partner titolare della proprietà della casa comune, il convivente registrato ha diritto a restare nella casa comune per un periodo da 2 a 5 anni a seconda della presenza di figli e della durata della convivenza o, nel caso di contratto di affitto, di subentrare al partner affittuario deceduto. Sembrano piccole cose ma, specie in un Paese sempre più vecchio e con un quadro familiare piuttosto articolato, con divorzi, secondi matrimoni, figli di secondo letto e nuovi compagni, sono aspetti pratici della vita familiare di un certo rilievo. Sotto il profilo patrimoniale, il contratto di convivenza consente di scegliere tra separazione e comunione dei beni e di regolare il menage familiare, con accordo sulle contribuzioni di ognuno dei due conviventi, e l’eventuale rottura dell’unione. In assenza dei patti prematrimoniali, che in Italia non sono ancora vigenti, in caso di convivenza è possibile concordare un’uscita dall’unione informale.
Abbiamo già detto che gli uniti civilmente sono equiparati dalla legge ai coniugi. Ma due persone dello stesso sesso non necessariamente legate da rapporto sentimentale/sessuale, potrebbero scegliere di proteggersi reciprocamente attraverso un’unione civile?
La legge parla di unione basata su legame affettivo e mutua assistenza, purché si tratti di persone dello stesso sesso. Per cui, sì, anche due amiche o due amici potrebbero decidere di costituire un’unione civile sostenendosi così per il futuro, anche in caso di decesso di uno dei due. Ma bisogna ricordare che l’unione civile è equiparata al matrimonio, quindi, di nuovo, attenzione, è come decidere si sposare l’amica o l’amico in questione. Anche se l’unione, come il matrimonio, si può sciogliere.
Intravede ulteriori modifiche possibili al diritto italiano di famiglia?
Non mi dispiacerebbe se, come qualcuno sostiene, si arrivasse ad ammettere i patti prematrimoniali, regolando fin dall’inizio una possibile separazione e risparmiando un sacco di soldi e di tempo quando questa avviene. Così come immagino che, oltre a cambiare eventualmente tassazione e franchigie nella successione, sarebbe auspicabile una revisione della quota disponibile. Il diritto di famiglia italiano tutela molto gli eredi e meno le volontà del testatore, può darsi che in futuro si renda più elastica la quota totalmente a disposizione delle volontà del testatore. Così come, pur in divieto di patti successori, si è operata un’importante modifica attraverso il patto di famiglia per tutelare, nell’ambito della successione, la continuità d’impresa, attraverso una pattuizione in vita; tuttavia, tale istituto è di fatto assai poco applicato nella pratica per una serie di criticità connaturate allo stesso (tacitazione legittimari, eredi sopravvenuti, ecc.).
Testo a cura di Emanuela Notari
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