Alcuni ricercatori dell’Università della Virginia hanno avuto l’idea di verificare come agiscono le persone quando gli si chiede di modificare in meglio un data situazione.
Il risultato di una serie di test, tra i quali quello del Lego che vediamo tra poco, hanno dimostrato che la maggior parte di noi tende ad aggiungere piuttosto che sottrarre. La percentuale di chi agisce in questo senso, tende però a diminuire quando viene specificato che le opzioni possibili includono anche una sottrazione o quando gli si concede più concentrazione per riflettere.
Questo, oltre a mostrare una tendenza maggioritaria all’addizione, offre anche le motivazioni per annoverarla tra le euristiche, o bias, che sono le scorciatoie mentali che adottiamo per cavarcela nella vita di tutti i giorni con il minor dispendio energetico.
Le euristiche sono in buona sostanza generalizzazioni, approssimazioni, automatismi, nati sulla base dell’esperienza statistica che ci permettono di procedere speditamente valutando a spanne, in modo non ragionato, quanto incontriamo sul nostro cammino.

Tutti ne siamo vittime. In realtà, non è nemmeno giusto considerarle negativamente

Senza queste euristiche non potremmo vivere la nostra vita, dovremmo fermarci a soppesare i pro e i contro di ogni singola opzione di scelta e finiremmo per essere paralizzati dalla necessità di ragionare. E il ragionamento costa energia. Soppesare le opzioni, valutare i rischi, immaginare e confrontare gli scenari che emergerebbero dai risultati di azioni diverse è un lavorio mentale dispendioso che non possiamo permetterci continuamente. Come certi animali velocissimi nello scatto sanno di non poterlo prolungare a lungo e quindi scelgono di sobbarcarsi la fatica solo quando ne vale davvero la pena, cioè quando la preda sembra a tiro di scatto, così noi, sapendo di non poter valutare ogni singola azione della nostra giornata, scegliamo di fermarci a ragionare solo quando pensiamo ne valga la pena e, per il resto della giornata, inseriamo il pilota automatico.

Che, inevitabilmente, riduce i tempi di reazione penalizzando l’appropriatezza della reazione. Il nostro massimo esperto di finanza comportamentale, Matteo Motterlini, le definisce infatti trappole mentali.

Uno dei test condotti in questa ricerca sulla nostra attitudine ad aggiungere piuttosto che sottrarre, quello del Lego, mostrava questa costruzione (riproduzione di Nature) che vede un tetto trasparente sovrastare una costruzione, retto da un solo pilastro decentrato, a protezione di un immaginario pedone. La richiesta era -come modificare la costruzione per rendere più stabile il tetto. La soluzione avrebbe meritato 1 euro di vincita. A disposizione una serie di mattoncini al costo di 10 centesimi l’uno, da detrarsi dall’ammontare della vincita.

Ciò nonostante, nonostante il costo delle addizioni, la maggioranza delle persone ha costruito un altro pilastro sul lato opposto. Pochi hanno pensato di eliminare il solo pilastro e fissare il tetto trasparente direttamente alla superficie sottostante.

Un altro test era offerto da un evento reale

Il nuovo presidente entrante di una società aveva chiesto ai suoi impiegati di mandargli suggerimenti su come migliorare la compagnia. La maggioranza dei lavoratori ha suggerito di aggiungere: personale, funzioni, macchinari. Nessuno ha proposto di eliminare qualcosa. Perché?

La prima risposta è abbastanza logica: non è opportuno screditare quanto fatto da altri quindi aggiungo invece di eliminare. Un’altra è che nella nostra cultura il miglioramento è codificato come il risultato di una maggiorazione: più grande, più alto, più lungo. Oppure, viene considerato più creativo un atto che aggiunge qualcosa piuttosto che un atto che sottrae.

Se il guardaroba non ci convince, invece di liberarci dei capi che non mettiamo, corriamo a comprarne di nuovi. Se quanto guadagniamo non fa la nostra felicità, il che potrebbe agevolmente farci riflettere sul ruolo del denaro, corriamo alla rincorsa di un maggior guadagno.

Lo stesso concetto di benessere è stato nel tempo influenzato da questa “trappola mentale”: da stare bene nella situazione in cui si è a maggiore disponibilità di beni e denaro.

La parentela del bias dell’addizione con altre due euristiche già note alla finanza comportamentale è evidente: l’avversione alla perdita, che ci fa considerare emotivamente più pregnante la perdita di 100 euro che la vincita della stessa somma, e la dinamica dei sunk cost, ovvero la tendenza a proseguire un investimento (di denaro o impegno) quando i costi relativi al suo avviamento sono ormai irrecuperabili; esempio, al ristorante ordiniamo sempre più di quanto saremmo disposti a mangiare, ciò nonostante mangiamo più del necessario per “ottimizzare l’investimento”.

Nonostante il gusto del ‘900 nella letteratura, nella moda, nell’architettura, nell’estetica abbia premiato il meno sul più – forse facendo virtù del secolo delle due guerre mondiali – il retaggio che ci portiamo dietro è quello dell’abbondanza, forse cicatrice permanente della povertà rurale delle nostre origini sociali. Think small, famosa campagna pubblicitaria VolksWagen degli anni 60 negli USA, terra di auto enormi, less is more, faro dell’estetica del 900 coniato dall’architetto Ludwig Mies van der Rohe ma in seguito adottato da molti. Il concetto di decrescita felice di cui è bandiera militante Serge Latouche, studioso e professore emerito dell’Università di Parigi, che ha cercato invano di mostrare alla società che è possibile vivere bene, e persino meglio, riducendo produzione e consumi nel rispetto di un equilibrio ecologico tra uomo e l’ambiente. Il fenomeno emerso nei primi anni 2000 detto del downshifting, cioè della decisione di un numero crescente di professionisti di ridurre le ore di lavoro, guadagnando proporzionalmente meno, per vivere meglio. Tutti i movimenti verso l’estetica e l’etica del meno non hanno scalfito l’inerzia – anima dell’euristica – che ci induce a valutare un’aggiunta segno di maggior benessere rispetto a una sottrazione, tanto da far diventare lo shopping una cura per la noia e la depressione.

Uno degli studiosi, intervistato, cita un caso storico e simbolico dell’efficacia della sottrazione: la bicicletta senza pedali per bimbi molto piccoli. Sembra che i tentativi di rendere stabile una biciclettina tanto da permettere al piccolo di prendere confidenza con il mezzo senza correre rischi fossero stati numerosi prima che il lampo di genio si concretizzasse nella sottrazione dei pedali. Per decidere che il meno ha lo stesso valore del più, ci vuole una certa dose di umiltà.

Matteo Motterlini, professore ordinario di filosofia della scienza e direttore del CRESA all’Università Vita-Salute San Raffaele

“Simple can be harder than complex” era il noto mantra di Steve Jobs. Ora sappiamo perché anche dal punto di vista cognitivo – commenta Matteo Motterlini, professore ordinario di filosofia della scienza e direttore del CRESA all’Università Vita-Salute San Raffaele – Il nuovo studio mostra che per la nostra mente semplificare sottraendo elementi alla complessità viene meno naturale che aggiungere ulteriori elementi. Come per altri ben documentati bias cognitivi si tratta di tenerne seriamente conto se vogliamo provare a superarlo. Ovvero, se conosci le trappole, anche mentali, le eviti.

Professore, lei ha scritto Trappole mentali ed Economia emotiva (Rizzoli), come può questo bias dell’addizione condizionare il modo in cui ci relazioniamo con il denaro e gli investimenti?

Un primo aspetto è come questo nuovo risultato si leghi a uno dei bias più classici della finanza comportamentale quale la asimmetria psicologica tra guadagni e perdite, ovvero la cosiddetta loss avversion. Le persone tendono a pesare psicologicamente le perdite in modo sproporzionato rispetto ai guadagni (fino a oltre due volte tanto). Perdere è comparabilmente più doloroso rispetto al piacere che ci arreca guadagnare. La nostra mente cerca di ridurre le perdite in tutti i modi, e associa alle perdite una sensazione viscerale di tipo negativo (perdere cibo, rifugio e oggi denaro ci mette in pericolo), è quindi naturale pensare che anche nel risolvere problemi restiamo incastrati in questa cornice e preferiamo aggiungere (cioè guadagnare) invece di togliere (cioè perdere).

Il secondo aspetto potrebbe riguardare il modo in cui valutiamo e quindi modifichiamo la composizione del nostro portafoglio di investimento: anche in questo caso, potremmo credere che aggiungendo dei prodotti di investimento miglioreremmo l’efficienza del portafoglio quando invece tale obbiettivo potrebbe essere ottenuto attraverso una riduzione dei titoli”

Conoscendo la nostra predilezione per l’addizione, come possiamo limitare il condizionamento che ci viene da questo bias?                                                                                                                                 L’unico modo che conosco per evitare i bias è esserne consapevoli. Conoscere meglio se stessi e il modo in cui ragioniamo e prendiamo decisioni. La chiave del successo in molte circostanze e anche negli investimenti è spesso pensare al modo in cui pensiamo, per correre ai ripari prima di commettere errori di valutazione.                                             Occorrerà ingegnarsi per progettare ambienti decisionali trasversali a diversi contesti – innovazioni tecnologiche, strategie manageriali, architettura, politiche pubbliche – affinché la semplificazione sia agevolata e incoraggiata. Solo così saremo in grado di conseguire soluzioni più efficienti.

testo a cura di Emanuela Notari

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