Tra i tanti bias, propensioni o pregiudizi errati, che costellano la nostra vita, uno tra i più comuni è il cosiddetto recency bias, ovvero il pregiudizio che ci porta a credere che un risultato recente – positivo o negativo – continuerà nel prossimo futuro. Motivo per cui in finanza si tende a uscire da una posizione appena il titolo accenna una discesa oppure si tende a credere che un titolo o una posizione che ha dato buoni risultati continuerà a farlo nel futuro.
È facile pensare che, sia nel buono che nel meno buono, ciò che è successo nel 2022 tenda a proseguire, ma non è necessariamente una buona idea. Per esempio la crescita esponenziale dei tassi che ha premiato i BTP Italia o dell’inflazione che ha avuto effetti straordinari sulla rivalutazione del TFR lasciato in azienda (+ 10% a fronte di un crollo dei fondi pensione del -10%) non è necessariamente plausibile per gli anni futuri.
Attenzione quindi, per fermarci su questo punto, ad aspettarsi che lasciare in azienda il proprio TFR continuerà ad essere una scelta vincente.
Fondo pensione e TFR: perché il 2022 è stato un anno particolare
L’inflazione infatti si prevede, seppur superiore agli anni pre-guerra, in discesa rispetto al 2022, anno picco e, secondo Covip l’organo di vigilanza sui fondi pensione, il TFR lasciato in azienda negli ultimi 10 anni (2022 incluso) si è rivalutato mediamente del 2,4%, mentre i Pip, Piani individuali pensionistici) del 2,9% e fino al +4,7% quelli azionari.
Un interessante articolo del Corriere Economia, con simulazioni ad opera di Smileconomy, dimostra, numeri alla mano, che nonostante una più elevata inflazione media, infatti, favorisca il TFR mantenuto in azienda, la convenienza economica sia maggiore nel caso di conferimento in un fondo pensione (previdenza integrativa); molto maggiore nel caso di profili di rischio alti (azionario) e poco superiori all’ipotesi che venga lasciato in azienda per i profili di rischi più bassi. Questa sintesi tiene conto anche del rapporto costi/trattamento fiscale/rendimenti, dove la leva fiscale gioca un ruolo preponderante.
Il TFR lasciato in azienda infatti non produce costi, rende mediamente meno e viene tassato dal 23% in su, mentre il TFR investito in un fondo pensione ha i costi di copertura della consulenza, rende mediamente di più, con variazioni più o meno importanti a seconda del profilo di rischio, ma ha il grande vantaggio, voluto dallo Stato per promuovere la previdenza integrativa, di un trattamento fiscale di favore: dal 15% a scendere a seconda della durata dell’anzianità di iscrizione al fondo pensione.
Fondo pensione e TFR: la simulazione nel lungo termine
La simulazione che trovate al link all’articolo del Corriere, proietta la situazione di 3 lavoratori – di 30, 40 e 50 – anni che lavorino dai 25 anni e vadano in pensione a 67, con un’inflazione media del 3% e diversi profili di rischio. Il risultato è che anche con un profilo di rischio basso il TFR nel fondo pensione tende ad essere più vantaggioso – tanto più per chi ha davanti un lungo orizzonte temporale – o al peggio pari al TFR lasciato in azienda, mentre all’aumentare del profilo di rischio:
- un 30enne che lavori in un’azienda con meno di 50 dipendenti e abbia una retribuzione di 1.500 euro netti mensile, conferendo sia il TFR maturato che quello che maturerà a un fondo pensione potrebbe aumentare il proprio gruzzolo di ricchezza del 91%;
- un 40enne in una grande azienda fino al 62% in più;
- persino un 50 vedrebbe un vantaggio del 40% nonostante l’orizzonte temporale della pensione sia più vicino.
Attenzione, quindi, a fidarsi dell’aria che tira. Meglio un consulente.
Testo a cura di Emanuela Notari
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