Dati su dati, l’esaurimento di ogni passione degli italiani per il proprio lavoro appare ormai insanabile. Gallup ha appena pubblicato il suo Global Working Report annuale ascoltando 150 mila lavoratori in 160 paesi del mondo. I risultati non sono incoraggianti per tutti, con un lavoratore su cinque al mondo che odia tanto il proprio lavoro da sabotarlo. Quasi la metà si sente stressata e quattro su dieci accusano ansia e preoccupazioni. Su quasi una persona su quattro il pensiero del proprio lavoro provoca tristezza e su una su cinque addirittura rabbia.

Ma qual è la situazione dell’Italia? Se possibile, anche peggio: 4% la quota di lavoratori coinvolti in quello che fanno, il dato più basso d’Europa, uno su due (49%) si è detto stressato il che ci riserva il quinto nella classifica europea e soprattutto segna un peggioramento dal 2009, anno della prima rilevazione (da 31% a 44% di lavoratori che accusano stressa da lavoro), ma è la tristezza associata al proprio lavoro che ci fa sedere al 2° posto in Europa, dopo Cipro, con un ulteriore peggioramento, dal 16% al 23%. Per fortuna gli arrabbiati restano stabili all’11%.

Prima di Gallup l’indagine mondiale periodica Workmonitor di Randstad riportava che quasi il 30% dei lavoratori italiani sta cercando un nuovo lavoro, collocando l’Italia al terzo posto nel mondo, il 38% dei lavoratori di età tra i 25 e il 34 anni. E un altro 24% sta pensando di cambiare lavoro, dato che fa il paio con il +85% di dimissioni nell’ultimo anno per lo più perché l’impiego precedente non si adattava alla propria vita privata (38%), il 51% nella fascia di età 18-34.
È solo colpa del fatto che, sempre secondo Workmonitor, solo il 19% ha ricevuto un aumento di stipendio nell’ultimo anno, dato che ci posiziona in fondo alla lista mondiale, o ha anche a che fare con come sta cambiando il senso del lavoro?

Il Covid ha dato il suo contributo di dubbi e incertezze sul proprio equilibrio vita-lavoro e ha fatto assaggiare a molti i vantaggi di una specie di autogestione dei propri tempi con il lavoro da remoto. Ma forse alla base ci sono anche altre considerazioni.

Una su tutte, lo stile di leadership. Fino a una generazione fa il lavoro era fonte certa di ruolo sociale e dignità, e i capi, che ancora non si chiamavano leader, erano spesso considerati degli eletti, chiusi nella propria roccaforte di talento innato o di fortuna, quella di essere ascesi a una posizione di potere. D’altronde era l’epoca del posto fisso e in molti abbiamo pensato a quel tempo che restare fedeli a un’azienda dedicandole l’intera vita lavorativa ci avrebbe guadagnato la possibilità di assurgere a posizioni di comando per le quali la natura non ci aveva, forse, scelto.

Si teneva la cadrega ben salda e si dedicava il massimo sforzo al raggiungimento di uno status. Sacrificio, dove il talento non era arrivato, spesso entrambe le cose. Così si è cominciato a remunerare l’anzianità secondo una logica tutt’affatto meritocratica. Tanto che oggi le aziende spesso considerano alienabili i lavoratori senior perché, in una logica dove i dati trimestrali contano più delle prospettive, ha senso tagliare gli stipendi più alti.

Ma per fortuna i segnali che anche il mondo del lavoro stia cambiando sono sempre di più. E con esso la qualità della leadership. Un recente articolo per Apogeo di Philip Kotter, Professore Emerito della Harvard Business School, esperto di temi legati alla leadership e soprattutto al cambiamento, chiarisce gli ingredienti: leaderhsip e apprendimento permanente, chiarendo che la leadership non è il più delle volte un talento iscritto nel DNA, ma può essere sviluppata attraverso l’inclinazione ad imparare da circostanze, contaminazioni, esperienze. Quel che conforta è che questa attitudine non si esaurisce, nelle persone che ne sono dotate o che hanno capito come svilupparla, al culmine della carriera, diciamo intorno ai 50 anni, come succede normalmente alla traiettoria di successo. Anzi, continua, con un ritmo che normalmente si attribuisce ai giovani, fino a 90 anni e oltre. Perché per queste persone non apprendere è la morte civile.

Ergo, non è scritto da nessuna parte che non si possa continuare a crescere anche mentre si invecchia. In inglese, lingua spesso più sincera perché molto pragmatica, invecchiare si dice in grow older. Che bello se trovassimo una traduzione altrettanto empatica e comprensiva del senso della vita. Invecchiare è un processo che va verso una meta precisa, la vecchiaia, to grow older fa pensare che si continui a crescere in quella direzione, ma il concetto di crescita porta con sé una serie di “deviazioni necessarie” intrinseche nel processo dell’apprendimento, della sperimentazione, del cambiamento e tutto sommato anche dell’evoluzione.

In questa società che continua ad accelerare il ritmo dell’innovazione e dei cambiamenti è sempre meno credibile che si possa imparare quanto necessario ad esprimere la propria potenzialità e a sostenere il proprio percorso di vita, lavorativa e personale, nell’arco dei primi 25 anni di vita.

Secondo Kotter, i capi che possiedono un’attitudine all’apprendimento permanente e la capacità di trarre qualcosa di buono anche dai momenti difficili, migliorano col tempo come il buon vino, invece di esaurire la propria spinta propulsiva alla soglia dell’età matura: non si arrendono davanti alle difficoltà perché sanno che anche negli angoli più reconditi di una crisi c’è da imparare qualcosa di utile per la propria crescita e non hanno atteggiamenti arroganti perché una persona disposta ad imparare è tendenzialmente umile e scevra dal rischio di sovrastimarsi. Il che, a parità di IQ, accresce l’EQ, il quoziente emozionale di empatia, comprensione, ascolto.

Per essere disposto ad imparare continuamente, bisogna continuamente considerarsi imperfetto, più mezzo vuoto che mezzo pieno. Vuol dire essere abituato o abituarsi ad inciampare nelle difficoltà del discente, del neofita, di chi non sa. Vuol dire saper cadere e rialzarsi. Vuol dire accettare l’errore. Da qui la capacità di ascoltare e accettare valutazioni sul proprio operato, proprio di chi sta imparando. Un talento che manca spesso ai leader del passato che, evitando confronti e feed-back, si allontanano istintivamente dal rischio di sofferenza.

Il risultato è che non soffrono ma fanno soffrire.

Testo a cura di Emanuela Notari

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