Ne hanno parlato i giornali: il simulatore dell’Inps, oracolo dell’andamento delle pensioni in un Paese dove le riforme si compiono quando è già ora di pensarne un’altra, ha decretato che un 25enne di oggi che lavori (e contribuisca) già da un anno potrà andare in pensione anticipata a 70 anni o in pensione di vecchiaia a 70 anni e 6 mesi. Se tutto va bene. Cioè se ha lavorato e contribuito in forma continuativa. Se invece ha avuto intoppi e alla fine ha versato contributi per meno di 20 anni (ma almeno 5), andrà in pensione a 74 anni. Prospettiva tosta.

Tanto più che, nel frattempo, dai giornali internazionali che trattano il tema della longevità e dalle Università più prestigiose del mondo dove si insegna a gestirla in programmi di orientamento, ci dicono che il futuro è fatto di una lunga carriera ciclica, dove tappe di lavoro e contribuzione si alterneranno a tappe formative, dove a una carriera principale da dipendente seguirà nella seconda parte della vita, dai 50 anni in poi, una seconda carriera diversa dalla prima, più probabilmente da lavoratore autonomo / imprenditore.

In pensione a 70 anni: come gestire la longevità

In questa prospettiva si aprono almeno due grandi questioni:

  • l’orientamento dei giovani che, oltre a non avere la più pallida idea di come funzioni il nostro sistema pensionistico e cosa significhi passare da un lavoro dipendente a un lavoro autonomo in termini contributivi e fiscali, non sanno come gestire una vita che per loro sarà centenaria (come potrebbero d’altronde, è una prospettiva del tutto inedita);
  • le opzioni alternative/integrative alla pensione pubblica, attraverso fondi pensione o piani di accumulo che, giovandosi del lungo termine, possono fare di piccoli accantonamenti mensili un tesoretto pensionistico con la bacchetta magica dell’interesse composto e del tempo.

In merito al primo punto, torniamo ai corsi che si tengono sempre di più nelle università estere, dalle più prestigiose come Harvard e Stanford, alle più abbordabili. Corsi che insegnano a passare dal 2° al 3° quarto di vita. Cosa vuol dire? Vuol dire che gli anni in più che il progresso sta concedendo all’aspettativa di vita hanno fatto spazio per una fase fino a ieri sconosciuta, del tutto inedita. La fase intermedia tra la maturità e la vecchiaia, che potremmo dire dai 50 ai 75 anni, e che gli esperti oltreoceano chiamano Quarter 3. È una fase che prima non esisteva perché si era già anziani, e pensionati, a 60 anni. Una specie di adolescenza della senescenza che richiederà una revisione della seconda parte della vita (50-100).

Se nei primi 50 anni si accumulano studi, esperienza di lavoro, guadagni e genitorialità, infatti, nella seconda si ricerca più se stessi. È l’età in cui si cambia più verosimilmente carriera, affrancandosi, per volontà o per necessità, dalla forma di lavoro dipendente a tempo pieno, per imboccare un’altra strada più aderente all’io che abbiamo raggiunto dopo i primi 50 anni di vita: più flessibile, più autogestita. È l’epoca in cui molto spesso ci si separa o si divorzia (i matrimoni in Italia durano mediamente 17 anni), creandosi un’altra esperienza di coppia, o un’altra famiglia, o una vita da single.
Separazioni e single sono due trend della società italiana, dove le statistiche danno ogni 5 minuti una richiesta di separazione e un esercito di single stimato in crescita: oltre 5 milioni le persone sole non vedove, quasi raddoppiate negli ultimi 20 anni, per circa due terzi celibi o nubili, mentre i monogenitori non vedovi sono circa 1,8 milioni (81% madri e 19% padri). Quindi circa 7 milioni di single, più tutti i vedovi, soprattutto vedove, che l’aumento dell’aspettativa e la maggiore longevità femminile di vita producono.

Nuove carriere, nuove famiglie, nuovi stili di vita richiedono più progettazione e più pianificazione del solito tran-tran, tanto più se la prospettiva di una pensione pubblica si allontana ad ogni curva a gomito, ad ogni tornante della ridefinizione di se stessi a scapito della continuità contributiva.         E qui veniamo al secondo punto. Quali le opzioni alternative o integrative alla pensione pubblica su cui i giovani di oggi non potranno più contare come unico sostegno economico per la loro vecchiaia?

La leva del tempo e la leva dell’interesse composto. Piccoli importi accantonati di mese in mese per lunghi periodi di tempo, sommandosi agli interessi sviluppati che a loro volta diventano imponibile per il nuovo interesse, possono accumulare quanto serve per integrare la previdenza pubblica, ferma restando l’altra componente del reddito pensionistico, quella della contribuzione obbligatoria per tutta la parte di carriera da dipendente e per quella da lavoratore autonomo che verosimilmente occuperà la seconda parte della vita. Un pezzo qui e un pezzo là, un po’ di contribuzione e un po’ di risparmio, i giovani dovranno imparare a costruirsi una pensione fai da te, dove il ruolo dello Stato sarà meno preponderante, forse addirittura minoritario, rispetto al ruolo dell’individuo e della sua capacità di pianificare la propria vita. Materia per Consulenti Finanziari.

Ma tutto questo non funzionerà se a monte non ci sarà una grande, infinita attenzione alle proprie risorse non tangibili, non finanziare: la capacità di progettare, le competenze, nuove e rinnovate, da mettere al servizio del progetto, la flessibilità che tutti richiediamo e ricerchiamo ma che dobbiamo per primi trovare in noi per essere protagonisti, e non vittime passive, dei cambiamenti che ci aspettano.

In pensione a 70 anni: un esempio concreto

Per l’utilità di chi legge, ecco una simulazione su accantonamento mensile giovani e meno giovani, uomini e donne, in previdenza integrativa per fascia di età e per obiettivo di reddito integrativo. La fonte è We Wealth e l’elaborazione è di Smileconomy, aprile 2022.

Testo a cura di Emanuela Notari

Diritto d’autore: Foto di Jordan Whitfield su Unsplash

 

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