Secondo l’ultimo rapporto Edufin, solo 1 italiano su 2 è in grado di dire come funziona il nostro attuale sistema previdenziale, il che spiega in buona parte la bassa penetrazione della previdenza complementare, il risparmio privato investito in fondi pensione.
Dei tre pilastri che compongono la previdenza italiana, quello della pensione pubblica non gode di buona salute e comunque tende ad essere sempre meno generoso (sebbene ancora tra i più generosi al mondo). Il secondo è quello della previdenza complementare collettiva, cioè i fondi pensione di categoria di cui molti lavoratori godono in virtù dei contratti collettivi e nei quali confluisce il denaro che versano volontariamente nella previdenza complementare, più i conferimenti dell’azienda e il TFR (salvo si decida di mantenerlo in azienda). Il pilastro che resta condizionato puramente dalla volontà lavoratore è quello della previdenza integrativa individuale, che funziona attraverso versamenti periodici volontari a un fondo pensione privato.
Dai recenti dati Covip risulta che il 36% dei lavoratori (dati Covip), ovvero un terzo abbondante, ha investito in un fondo pensione, con la previdenza complementare collettiva o con quella individuale. Ma, se guardiamo ai versamenti effettivi, solo poco più di un quarto dei lavoratori continua a versare nel proprio fondo pensione.
Perché questo dovrebbe essere un grande tema? La prima considerazione parte dalla demografia: la vita continua ad allungarsi e ormai sfiora i 90/100 anni. Gli Stati non sono in grado di pagare pensioni congrue a una popolazione sempre maggiore di anziani per un periodo di 25/30 anni, tanto meno in un periodo in cui i tassi di interesse appesantiscono ulteriormente il debito pubblico. Per difendere i conti pubblici dal peso della previdenza, lo Stato italiano è corso ai ripari con riforme previdenziali che hanno portato a una serie di risultati: a) la pensione non è più soggetta ad adeguamenti al livello retributivo ma solo all’inflazione, anche se la l’entità della contribuzione inevitabilmente corrisponde a quella della retribuzione, entro un certo tetto; b) la pensione è legata anche all’andamento dell’economia nazionale, nella forma del Pil, quindi, prescindendo da quanto una persona contribuisce, la l’economia del Paese influenza il suo reddito pensionistico; c) l’età pensionistica è mobile perché si adegua periodicamente all’aumento dell’aspettativa di vita. Il nuovo regime basato sulla contribuzione farà scendere i redditi pensionistici rispetto al vecchio sistema di calcolo retributivo di cui hanno goduto i nostri nonni e padri. Inoltre, il forte legame con la contribuzione penalizza inevitabilmente le persone che vivono frequenti interruzioni del lavoro per carichi familiari (le donne) e i giovani che hanno carriere di lavoro decisamente discontinue.
Eppure, una cifra che oscilla tra tre quarti e due terzi dei lavoratori italiani, quelli che non hanno un fondo pensione, o non sono informati oppure, pur informati, confidano nel fatto che la loro pensione pubblica sarà sufficiente a coprire il loro fabbisogno. Ma niente di quello che abbiamo detto nella prima parte di questo articolo conforta questa opinione. Gli stipendi italiani già non brillano per consistenza e il tasso di conversione del contributivo, cioè il rapporto tra retribuzione e pensione, si situa tra il 65% e il 70%. Difficile pensare che sia sufficiente. In realtà, confidano nell’illusione inerziale di poter disporre della stessa esperienza di pensionamento di cui hanno goduto i loro antenati in un sistema pensionistico pensato – quando l’aspettativa di vita coincideva più o meno con l’età pensionabile – come copertura pubblica del rischio di longevità dei pochi cittadini che sarebbero sopravvissuti alla propria capacità lavorativa. Ma adesso che tra l’età di pensionamento e lo scadere dell’aspettativa di vita passano 25/30 anni, è evidente che quel tipo di trattamento non è più sostenibile e che la previdenza integrativa privata dovrebbe essere la prima cosa che un lavoratore fa appena il suo stipendio glielo permette.
Il fondo pensione ha senso solo se si è giovani?
Anche su questo punto siamo poco informati e può essere molto utile la riflessione fatta recentemente da un articolo di Milano Finanza con il supporto di Smileconomy. Partiamo dal fatto che i fondi pensione sono investiti in prodotti finanziari, azioni o obbligazioni, quindi il profilo di rischio scelto tra quelli disponibili all’interno del fondo pensione ha una sua importanza. Ma non è l’unico fattore.
Se per un lavoratore al primo impiego bastano 100 euro mensili per garantirsi una rendita integrativa all’epoca della pensione, anche con un profilo di rischio basso, agendo a suo favore la leva del tempo, nel caso di un lavoratore di mezz’età – diciamo 40, 45 anni o 50 anni – che decidesse di investire in un fondo pensione, un versamento mensile di 200, 250 e 300 euro a seconda dell’età potrebbe garantire una rendita mensile a integrazione della pensione di, rispettivamente, 291-260 e 208 euro solo se investito con un profilo di rischio alto. Qualcuno potrebbe pensare che non valga la pena di impegnare 300 euro al mese per ottenerne 208. Ma per fare una valutazione corretta, spiega l’articolo, bisogna valutare l’indice di efficienza finanziaria, ovvero correlare l’investimento al rendimento moltiplicato per l’aspettativa media di vita e ai vantaggi della detraibilità. Da questo punto di vista rileva non poco il profilo di rischio: al più elevato corrisponde un’efficienza maggiore. L’articolo e la simulazione di Smileconomy mostrano infatti come con un profilo di rischio alto i tre indici di efficienza finanziaria per i tre casi risultino 2.2 euro per ogni euro versato per il quarantenne, 2.1 per il quarantacinquenne e 1.9 per il caso del cinquantenne. Ma anche con un profilo di rischio basso, l’indice sarebbe comunque di 1.5 (un euro e mezzo per ogni singolo euro versato). Alla fine, nelle società della longevità, il tempo è una variabile vantaggiosa anche in età matura.
Testo a cura di Emanuela Notari
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