Quante volte parlando di passaggio generazionale e conservazione della ricchezza, abbiamo sentito o utilizzato l’affermazione: “La prima generazione crea, la seconda mantiene, la terza distrugge”. Potrebbe sorprenderci sapere che questo modo di dire non è esclusivamente utilizzato in Italia, ma al contrario è presente anche in molti altri Paesi, magari riadattato alla cultura ed alle tradizioni locali. In Brasile, ad esempio, si dice “padre ricco, figlio nobile, nipote povero”, mentre in Cina lo stesso concetto è espresso invece con “dalla risaia alla risaia, in tre generazioni”. Perché questo concetto è così diffuso e conosciuto a livello internazionale? Può offrire una spiegazione uno studio pubblicato sulla Harvard Business Review nel 2012, dai cui risultati emerge che il 70% delle imprese familiari è destinata a fallire entro la terza generazione e di queste la maggior parte chiude addirittura entro la seconda. Si potrebbe pensare che sia un fenomeno naturale, legato a una specie di rigidità delle imprese famigliari, una incapacità di adeguarsi prontamente alla richiesta dei clienti di prodotti sempre più evoluti.

Dopo aver analizzato oltre 3.000 famiglie benestanti su un periodo di 25 anni, alcuni ricercatori hanno invece dimostrato che la principale ragione di insuccesso nella trasmissione della ricchezza (60% dei casi) è la perdita di fiducia o la mancata comunicazione tra i membri della famiglia; il 25% degli insuccessi è dovuto ad una inadeguata preparazione degli eredi, il restante 15% ad altre cause, di cui solo il 3% dei casi è rappresentato dal fallimento del business familiare. Occorre sempre tenere a mente che le famiglie, anche quelle con grandi patrimoni, sono pur sempre formate da persone, che interagiscono le une con le altre con sentimenti ed emozioni (amore, rispetto, rabbia, odio, gelosia, …). E anche quando regnano buone relazioni tra i componenti, le questioni legate al denaro possono sempre creare situazioni spiacevoli e difficili da gestire (dai piccoli litigi, fino a vere cause legali), soprattutto quando si ha a che fare con il passaggio generazionale e la trasmissione del patrimonio.

Come dicono gli stessi membri delle famiglie benestanti, “non conosci veramente tuo fratello o tua sorella, finché non devi dividere un’eredità con lui o con lei”. La causa principale è la mancanza di una gestione integrata della ricchezza che tenga in considerazione anche il ruolo fondamentale giocato delle emozioni e dai sentimenti. Sottostimando l’importanza delle dinamiche interpersonali, queste famiglie sono soggette a cadere in rovina più facilmente, specie quando i loro investimenti non performano positivamente, oppure quando uno o alcuni membri della famiglia prendono decisioni errate, senza che gli altri abbiano alcuna voce in capitolo. A fianco degli strumenti giuridici di trasmissione della ricchezza (es. testamenti, patti di famiglia, trust, …), queste famiglie devono monitorare costantemente gli elementi non finanziari che possono impattare sulla crescita (o sulla riduzione) del patrimonio, quali i valori familiari e la divisione dei ruoli tra i vari componenti. Solo con un approccio chiaro, ben comunicato e condiviso a questi due aspetti, la famiglia aumenta le proprie probabilità di sopravvivenza nel lungo termine (anche oltre la terza generazione), con conseguente aumento del benessere finanziario e soprattutto psicologico di tutti i componenti.

A differenza di quello che siamo soliti pensare, la ricchezza della famiglia non si basa solo sul capitale finanziario, ma principalmente sul capitale umano ed intellettuale dei suoi componenti, nonché sul capitale sociale, ossia il network di relazioni che i membri della famiglia hanno instaurato con soggetti terzi. Il capitale finanziario non è l’unico elemento da sviluppare (o da dividere), ma solo un mezzo per accrescere il capitale umano, intellettuale e sociale dei suoi membri. Per i detentori attuali della ricchezza si pone spesso il dilemma se lasciare che siano i familiari, in particolare i figli, ad ereditare tutto il patrimonio, con il rischio che non siano in grado di trovare poi il proprio scopo nella vita, oppure donare tutto a iniziative caritatevoli, con il rischio che i familiari covino risentimenti nei loro confronti.

L’esempio adottato da alcuni magnati (soprattutto anglosassoni) è quello proposto da Warren Buffett, il quale suggerisce che “una persona ricca dovrebbe lasciare ai suoi figli abbastanza denaro per permettere loro di fare qualsiasi cosa, ma non abbastanza da poter non fare nulla”. I consulenti evoluti, che vogliono dunque avvicinarsi a tematiche legate alla trasmissione della ricchezza, dovrebbero iniziare a conoscere le abitudini e gli stili di gestione del denaro dei possibili futuri eredi (in primis figli e nipoti). Familiarizzare fin da subito con i membri più giovani permette al consulente, infatti, di guadagnare la loro fiducia e al contempo conoscere quali sono le loro speranze ed i loro sogni, in modo da tenerne conto nella allocazione delle risorse. Il ruolo del consulente è cruciale anche per educare ed assecondare i desideri delle generazioni più mature, oggi detentrici della ricchezza: l’ascolto rappresenta ancora una volta un requisito fondamentale per identificare i reali valori e gli obiettivi futuri della famiglia, nella visione dei cosiddetti “senior”. Agevolare la comunicazione e la condivisione dei desideri delle generazioni che compongono la famiglia rappresenta per il consulente l’elemento chiave per gestire passaggi generazionali che possano definirsi di successo.

Articolo pubblicato su Mente & Finanza a cura di Duccio Martelli, professore aggregato di Economia degli Intermediari Finanziari all’Università di Perugia e Visiting professor alla Harvard University.

Diritto d’autore: unsplash-logoTim Marshall

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