L’Italia ha il raro dono di rappresentare con virulenza estrema alcune caratteristiche sociali che sono tipicamente europee: aumento della longevità, grave declino demografico, bassa partecipazione femminile al mondo del lavoro. Quello su cui si dovrebbe però riflettere è che questi tre fattori nei quali il nostro Paese “eccelle” sono in parte causati da un comune denominatore: l’assenza cronica di servizi familiari a sostegno del lavoro femminile, scelta invece adottata dalla Francia che, infatti, gode di un tasso di fecondità di 2 figli per donna, mentre noi siamo fermi a poco più di 1.
Meno servizi vuol dire che non si fanno figli o se li fai lavori a tempo ridotto, perché qualcuno se ne deve pur occupare.
Ma anche che se guadagni tanto da ritenere conveniente pagare una badante per il genitore/suocero anziano non autonomo continui a lavorare, oppure rinunci e te ne occupi tu. Fenomeno purtroppo esploso durante la pandemia quando in molti hanno deciso di sottrarre i parenti anziani non autonomi al rischio contagio nelle case di riposo e assisterli da sé.
E chi se non le donne di casa? L’ispettorato del lavoro nel 2019, quindi già prima che il Covid falciasse soprattutto i lavori femminili, osservava come il 73% delle dimissioni volontarie rispondesse a donne, prevalentemente nella fascia 34-44, e di queste il 35% fosse da attribuire a difficoltà nel conciliare lavoro e figli.
Donne e lavoro: l’opportunità del PNRR
A ridurre il fenomeno mira il PNRR, con investimenti sulle cure di prossimità e l’assistenza domiciliare che, alleviando le donne di parte del peso dell’assistenza, evita anche di concentrare gli anziani nelle strutture ospedaliere.
In tutti i paesi EU la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è inferiore a quella degli uomini: meno ore perché spesso si tratta di lavori part-time, stipendi più bassi, settori limitati. Le ragioni sono principalmente gli obblighi familiari nei confronti dei figli o di anziani che erodono gli spazi che le donne possono destinare al lavoro e rendono precarie al limite dell’episodico le carriere femminili. Ciò si traduce in un minor riconoscimento salariale il che, a sua volta, genera minore contribuzione pensionistica.
Secondo l’EU Gender Equality Index l’Italia ha guadagnato 2 posizioni in Europa tra il 2005 e il 2017, ma resta ultima “in termini di divari nel dominio del lavoro”. Nel 2019 il tasso di occupazione femminile era al 50,1%, ben 17,9 punti in meno degli uomini, che già non è tra i più alti; oggi sicuramente inferiore a causa degli effetti della pandemia che ha penalizzato soprattutto i lavoratori precari, donne e giovani.
E poi c’è il divario salariale. Si parla di un salary gender gap medio in Europa del 16,5%.
Secondo l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica la differenza nello stipendio netto mensile tra uomini e donne, a cinque anni dal conseguimento della laurea, è di oltre 500 euro: 1.969 contro 1.403. La sottosegretaria all’economia Cecilia Guerra parlava nel 2020 di un reddito medio femminile pari al 60% di quello maschile. E già, perché se i dati europei parlano di una differenza salariale a parità di mansioni in Italia del 12%, questo dato non rende una fotografia onesta della realtà, dove alla discriminazione salariale si accompagna il fattore qualità del lavoro: le donne infatti hanno più spesso lavori precari e a basso tasso di carriera, il che abbassa ulteriormente la loro capacità di produrre reddito.
Donne e lavoro: esiste un gap di reddito a parità di mansioni
Più inquietante il riflesso di tutto ciò sulle pensioni delle donne, inferiori mediamente del 33% rispetto a quelle maschili. Nella prospettiva delle riforme previdenziali che vedranno l’assegno pensionistico diminuire di un quarto nel passaggio dal sistema di calcolo retributivo a quello contributivo, questo dato risulta addirittura inquietante: 30% in meno + 25% in meno per gap di genere fa sì che le donne che andranno in pensione con il sistema contributivo avranno redditi previdenziali non sufficienti. Diciamo pure totalmente inadeguati.
Cosa si potrebbe fare? Per ridurre l’impatto del pregiudizio di genere da noi ci vorrebbe una rivoluzione culturale, che sicuramente avrebbe i suoi riflessi positivi sull’interazione tra i generi anche nella sfera privata, cosa di cui avremmo un gran bisogno, ma le rivoluzioni sono impegnative… Si potrebbe cominciare spingendo le donne a percorrere carriere di studi tecnologici e scientifici – oggi poco popolari tra le ragazze – che aprirebbero loro le porte dei lavori innovativi in crescita; lavorare in modo più incisivo sulla parità di ruoli familiari come si fa in Spagna, per esempio, con gli stessi congedi parentali per uomini e donne per la cura dei figli; rendere più facile la conciliazione lavoro famiglia come avviene in Francia, con asili aperti 11 ore al giorno dove si possono lasciare e riprendere i figli a qualsiasi ora, mini-asili privati all’interno dei condomini, sgravi fiscali in base al numero di figli prescindendo dal reddito familiare; adottare la flessibilità lavorativa come regola e premiare l’efficacia, più che la presenza. Altrimenti le donne non avranno mai gli stessi spazi per crescere lavorativamente che ha un uomo che può permettersi tornare a casa più tardi se il lavoro lo richiede.
Non è solo una questione di equità, seppur non vi sia dubbio che lo è, è anche una questione economica che riguarda tutto il Paese: è stato calcolato che le perdite di PIL pro capite attribuibili ai divari di genere nel mercato del lavoro europeo arrivano fino al 10% (Cuberes e Teignier-Baqué, 2016).
Personalmente attribuisco un effetto urticante alle quote rosa, siano esse nei partiti politici o nei board delle aziende private, come previsto nella legge Golfo-Mosca del 2011 di recente estesa anche alle aziende pubbliche, però bisogna ammettere che funzionano. Dieci anni fa le società quotate in Italia erano 272 e tra i propri consiglieri e sindaci contavano solo un 6% circa di donne. Nei CdA i numeri erano altrettanto irrisori. Oggi, secondo il rapporto Consob del 6 aprile 2021, i board dei CdA delle aziende quotate sono costituiti per il 42,8% di donne.
Una recente ricerca di Kpmg sulle prime 100 aziende familiari per fatturato riscontrerebbe che nel 27% dei casi le donne sono presenti in ruoli importanti e che non è da escludere che l’esplosione dello smart working abbia finito per giovane alle donne che hanno così potuto conciliare meglio vita familiare e vita lavorativa, o semplicemente gestire i propri tempi in modo più autonomo, finendo per aderire a una nuova visione del lavoro che, inevitabilmente, tende a premiare più l’efficienza che la presenza.
Le cose migliorano e presto i criteri ESG che già condizionano l’operato delle imprese, specie delle grandi multinazionali, in termini di rispetto per l’ambiente, saranno sempre più stringenti anche su responsabilità sociali e di governance. Se occorrono quote e penalizzazioni per camminare su un sentiero di equità e responsabilità, facciamole.
Testo a cura di Emanuela Notari
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