L’Olanda è un Paese avanzato in termini di sistema previdenziale, eppure i lavoratori autonomi non scelgono forme di pensione integrativa. E da noi? A parte i professionisti con le proprie casse, pochino anche da noi. I dati Covip dicono che un terzo dei lavoratori è iscritto a una forma di previdenza complementare, ma solo un quarto contribuisce in modo costante. E stiamo parlando di lavoratori dipendenti che decidono di tutelarsi nei confronti del previsto abbassamento del tasso di conversione, ovvero il rapporto tra l’ultimo reddito annuo da lavoro e il primo reddito annuo pensionistico. Secondo la Ragioneria Generale dello Stato, infatti, il tasso di conversione per i lavoratori dipendenti scenderà nei prossimi anni, dal 70% del 2020 al 65,6% del 2030, per poi risalire leggermente.

Molto peggiore la stima per i lavoratori autonomi, che sono invece iscritti in numero molto inferiore a qualche forma di previdenza integrativa, per i quali il tasso di conversione passerà dal 53% al 44%. Quanto basta per mettere veramente a rischio non solo il tenore di vita ma anche la stessa sussistenza negli anni della pensione. Se poi pensiamo alle donne che partono da redditi pensionistici inferiori in numeri assoluti, la questione si fa seria.

Ma scopriamo che non è solo un problema italiano. In Olanda che gode di uno dei sistemi previdenziali più quotati, la pensione integrativa sta raccogliendo pochissime adesioni da parte dei lavoratori autonomi, 6% rispetto all’87% dei dipendenti. Una popolazione di liberi professionisti, precari, lavoratori occasionali fatica infatti a risparmiare in modo costante e organico per il futuro. Un futuro lunghissimo, data la nuova longevità, specie per i giovani che avranno davanti vite ormai centenarie.

Sono questi lavoratori la vera frattura fra il passato e il futuro, fra il ‘900 e gli anni 2.000. Nel nostro immaginario in pensione più o meno ce la si cava, tra assegno e risparmi, perché così è stato per i nostri nonni ed è per i nostri genitori. Ma chi non è vicino all’età pensionabile vive una situazione molto diversa, dove i debiti non sono ancora risolti, i risparmi non esistono o quasi, i flussi di reddito sono incostanti, il lavoro non è più certo e i carichi familiari anziché diminuire per aiutare la presenza femminile nel mondo del lavoro, sono aumentati dalla pandemia in poi, riducendo la partecipazione lavorativa del gentil sesso, in Italia, dal 51% al 49%, contro il 63% dell’Europa.

Previdenza complementare:  soffriamo del bias di ancoraggio?

Sembra che il condizionamento che ci arriva dall’immagine di chi ci ha preceduto nella pensione e oggi vive tutto sommato discretamente sia più potente dell’effetto dei calcoli pubblicati dai giornali. O è che, mentre tutti abbiamo genitori e/o nonni in pensione, non tutti leggiamo i giornali, così restiamo ancorati all’immagine di generale benessere dei pensionati di oggi, impedendoci di vedere nelle cifre la realtà che aspetta molti di noi, soprattutto chi lavora in forma autonoma: il 44% del reddito (tasso di conversione) non è una base solida su cui costruire una vecchiaia serena. Anche se le prospettive sono meno ansiogene per i lavoratori dipendenti, è senza senso che solo un quarto dei lavoratori contribuisca a una previdenza complementare che ha il vantaggio di generare versamenti datoriali per ogni versamento del lavoratore.

Forse la vera ragione dietro l’ignavia previdenziale è che pensare al futuro sembra sempre di più un lusso anacronistico, un’ambizione che non si incastra nella vita quotidiana nostra e del mondo che ci circonda. Tanto più nel Paese meno assicurato d’Europa. Da noi si pensa che in qualche modo Dio provvederà e se non Lui il magico abbraccio della famiglia. Ma non cadiamo nella trappola, chi più chi meno, vivremo tutti mediamente più a lungo che mai, le famiglie saranno sempre più esigue e la Provvidenza aiuta chi si aiuta. Meglio pensarci per tempo.

Testo a cura di Emanuela Notari

Diritto d’autore: Photo by sydney Rae on Unsplash

 

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